L’arcipelago remoto, l’impossibilità di un altrove per Bulliard

Una terra estrema, fuori dal mondo, dove non c’è niente tranne che pioggia. Un reportage affascinante e una ricostruzione storica tra le pagine de “L’addio a Saint-Kilda” di Éric Bulliard. Il racconto di luoghi, tempi e personaggi che, chi prima chi dopo, se ne sono andati tra malinconia e speranze

È una casa editrice neonata, ha deciso di chiamarsi 21lettere: 21 come le lettere del nostro alfabeto che, insieme a qualche ospite straniera e ai segni di punteggiatura, creano l’universo dei libri. «Pochi selezionatissimi titoli su cui investire tanto», così la casa editrice descrive i sei libri complessivi che ha scelto di dare alle stampe ogni anno: nessun genere specifico, unico criterio la bellezza.

Non stupisce così che il titolo di esordio di questo nuovo progetto sia L’addio a Saint-Kilda (192 pagine, 14 euro) del giornalista e critico letterario svizzero Éric Bulliard, tradotto da Dylan Rocknroll e vincitore dei premi Edouard Rod (2017), SPG (2018) e del riconoscimento della Fondazione Régis de Courten (2019). Una ricostruzione storica che recupera una storia inedita e affascinante come solo le storie di isole remote sanno essere. Una storia che, tuttavia, non attinge al mondo della fantasia che tanti romanzieri ha stregato nel corso del tempo, portandoli a immaginare isole remote, scogli abbandonati in mezzo al mare dove dare rifugio a novelli Robinson o, chissà, a pensatori solitari. No, Saint-Kilda esiste davvero, ed Éric Bulliard ha deciso di raccontarne la singolare storia.

Oltre, solo l’oceano Atlantico

Cinquanta miglia a nord-ovest delle Ebridi Esterne, nell’estremo nord della Scozia, si trova l’arcipelago di Saint-Kilda. Rari scogli tra cui l’isola più grande, Hirta, con le sue lussureggianti e alte scogliere, tra le più spettacolari del Regno Unito, patrimonio Unesco al contempo terrestre, marino e storico. Un arcipelago noto per la frequentazione di alcune specie di uccelli marini, come il pulcinella di mare. Ma, soprattutto, conosciuto perché nonostante tutto fu abitato dall’Età del bronzo, millenni fa, fino all’agosto 1930, quando gli ormai pochissimi abitanti – trentasei, narra la cronaca – chiesero di essere evacuati in Scozia. Non era più possibile vivere a Saint-Kilda: non era rimasto nulla. Le condizioni – tra clima terribile, isolamento per gran parte dell’anno dal resto del mondo, sfinimento fisico e morale degli abitanti – non erano più adatte.

Di quel che successe allora, di cos’era Saint-Kilda e della sua storia racconta il libro reportage di Éric Bulliard. Un racconto che ha origine nel 1697, con la prima scoperta dell’arcipelago e l’arrivo della civiltà laddove viveva, totalmente estranea al resto del mondo da millenni, la comunità dei saintkildiani: analfabeta, parlante solo gaelico, senza un’organizzazione né un ordinamento politico, e dedita alla caccia della procellaria. Una storia di scoperta, di viaggi e di resa, tra rocce preistoriche in mezzo a un mare tempestoso che non conosce terraferma fino al Canada.

Un punto di vista estremo

“Turisti col mal d’avventura, di storia, di spaesamento. Col mal di viaggio di una vita”, sono questi secondo Éric Bulliard i profili delle persone che, oggi, si mettono in mare in un viaggio più che avventuroso e rischioso per raggiungere Saint-Kilda, dove si trova una piccola stazione militare e un altrettanto minuscolo museo dedicato alla civiltà che abitò l’isola di Hirta, di cui restano le tracce visibili nelle strade lastricate, nelle case, nelle suppellettili. Tra loro c’è anche l’autore, stregato da una storia unica e per questo deciso a ricostruirne la vicenda, fino ad approdare là, fuori dal mondo, dove non c’è niente tranne che pioggia.

La soluzione narrativa di Buillard conquista il lettore. Dallo studio delle antiche cronache e documenti ecco emergere figure di donne e uomini, le loro voci, i loro punti di vista: abitanti di Saint-Kilda, il pastore della comunità, l’infermiera, il postino. Eccoli al momento di partire, indagati e un po’ immaginati dalla penna di chi scrive. L’evacuazione diventa da reportage storia, e inframmezzandosi con i racconti personali dell’autore, datati aprile 2014, abita lo spazio e il tempo sospesi che separano la resa del 1930 dall’attualità, il fazzoletto di terra isolato dal mondo dalla Scozia. C’è tutto lo sfinimento dei pochissimi abitanti sopravvissuti, nelle scene dell’ultimo viaggio, e c’è la paura nelle storie di chi è rimasto isolato su uno scoglio mentre a Hirta la popolazione veniva sterminata dal vaiolo del 1727. Ancora, ci sono speranze e sogni nei racconti dell’emigrazione verso l’altro capo del mondo, l’Australia, in un Ottocento dove il morbillo era letale. C’è lo sbigottimento nei bombardamenti della prima guerra, esplosioni su una terra che non conosceva militari, armi né conflitti. C’è, per tutto il libro, l’ostilità di un’isola estrema i cui cinque chilometri quadri hanno smesso, secolo dopo secolo, di fornire risorse. È esaurita ogni possibilità di vita umana: a Saint-Kilda ha smesso di avere dignità il futuro.

Atlantide, Utopia, o dell’isolamento

Nessuno dovrebbe essere obbligato a soffrire per vivere, anzi sopravvivere, riflette l’autore attraverso le parole dei suoi personaggi ricostruiti nell’immaginazione e riemersi dalla storia di Saint-Kilda. Dietro quest’osservazione si intravede la potenza degli elementi e delle vibrazioni naturali che, da sempre, hanno scosso questo «granello di roccia posato sull’oceano, una briciola scappata dal Regno Unito». Un magnetismo che ha finito per attirare anche Bulliard, stravolto dal viaggio ai confini del mondo, dalla pioggia incessante e dal freddo, eppure affascinato da quelle vibrazioni e dalla «impressione di altro mondo» che, approdato sull’isola, gli fa pensare «siamo lontani da tutto, ma ci siamo».

Welcome to Saint-Kilda recitano le litanie turistiche: il viaggio di una vita, da testimoniare con un francobollo, ieri, con un selfie forse oggi, per i coraggiosi che si imbarcavano e ancora oggi sfidano l’oceano per mettere piede sull’isola ai confini del mondo. La geografia e la storia hanno ammantato Saint-Kilda di un’aura epica, quasi fosse un’Atlantide del grande nord, una sorta di Utopia: un paradiso isolato, in quanto tale estraneo ai problemi del mondo. Il lockdown imposto a causa della pandemia da coronavirus lo ha però dimostrato concretamente: l’isola ha una doppia faccia, e se da un lato la condizione di lontananza da tutto e tutti appare come un Eden, dall’altro il confine acquatico sa diventare soffocante. È il simbolo dell’impossibilità di un altrove, il segno che, come a Saint-Kilda, si resta in balìa del cielo e dell’oceano, e la vita si fa sofferenza. È la fragilità di esporsi a nemici sconosciuti: il vaiolo che arriva e stermina, le infezioni che, per contro, su una nave per l’Australia – isola galleggiante – proliferano lì dove il sistema immunitario dei saintkildiani non è preparato.

L’isolamento è distanza e difficoltà, assenza e sopravvivenza, futuro che si specchia sempre nel passato senza mai cambiare: abitudine che a volte è necessario spezzare. Come a Saint-Kilda nel 1930, come per tutti i personaggi ritratti da Buillard: chi prima, chi dopo, tutti hanno abbandonato l’isola natale tra malinconia e speranze. Perché «pensare diversamente, a volte soltanto pensare, è già partire un po’».

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