“Ma perchè siamo ancora fascisti?” è il nuovo saggio di Francesco Filippi, che spiega: “Spero finiremo di parlare prestissimo di fascismo come di un pericolo presente e concreto, e mai dell’evento storico che è utile da analizzare. Il male peggiore? Quelli che ritengono di poter utilizzare a piacimento le categorie del fascismo senza preoccuparsi dei danni alla memoria storica del Paese. Le derive fascistoidi, specie nei giovani, sono un sintomo della crisi della nostra democrazia”
Francesco Filippi torna a fare i conti con la storia. Dopo Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo (50 mila copie vendute, ne abbiamo scritto qui), torna in libreria con un nuovo saggio (ancora per Bollati Boringhieri), dal titolo Ma perché siamo ancora fascisti? Un conto rimasto aperto. In questa spietata radiografia del Paese da sempre definiti “brava gente”, Filippi (qui un suo video di consigli di lettura per il nostro canale YouTube) prende in esame le dinamiche politiche del dopoguerra e la mancata defascistizzazione delle istituzioni nonché il tentativo mancato di contrastare il neofascismo attraverso la legislazione: dalla XII disposizione della Costituzione fino alle leggi Scelba (1952) e Mancino (1993). Il fallito processo al fascismo, nel 1945, sarebbe stato causato dalla difficoltà oggettiva di rispondere alla domanda “chi è fascista?”, ossia dal trovare un criterio che chiarisse «nettamente chi andasse punito e chi no». La mancata soluzione avrebbe tuttavia favorito il riciclo del personale, in ogni settore, che da uomini del fascio si ritrovarono a essere uomini della Repubblica. Il saggio prende in esame anche le narrazioni culturali che si sono sviluppate nel periodo repubblicano: dalle interpretazioni dei filosofi Croce, Gobetti, Gramsci e Salvemini; al dibattito storiografico da Battaglia e De Felice fino alla produzione culturale, cinematografica, musicale e letteraria di massa che in molti casi, come dice nell’intervista lo stesso Filippi, ha assolto gli italiani dalle proprie responsabilità.
Dal titolo del tuo saggio, la domanda la rivolgo a te (con tanto di avversativa iniziale): ma perché siamo ancora fascisti?
«Siamo ancora fascisti perché, drammaticamente, non ci è stato insegnato e non siamo mai stati costretti ad essere altro. Il fascismo è stato un fenomeno complesso, che ha occupato 20 anni cruciali della vita di questo Paese, a cui non ha fatto seguito una profonda e strutturata analisi riguardo l’impatto di lungo periodo che ebbe, sulla nostra società, il totalitarismo italiano. La domanda così posta ammette anche una triste constatazione: nella costruzione dell’identità italiana, intesa come insieme di caratteristiche comuni attribuibili agli abitanti di questo paese, molte delle caratteristiche che ci riconosciamo come “tipicamente nostre” sono frutto di un racconto pubblico che fu il fascismo, per primo, a forgiare».
Chi sono oggi i fascisti?
«Direi che se ne individuano di tre categorie: i nostalgici, che vanno in pellegrinaggio sulla tomba di Mussolini e fanno il saluto romano all’anniversario della marcia su Roma. Poi ci sono i “moderni”, di tendenze politiche autoritarie e in generale antidemocratiche, che mettono il fascismo storico nel proprio retaggio culturale e si richiamano ad esso come un ispiratore. Questi due gruppi, messi insieme, sono una parte davvero minima della società del nostro paese. Infine c’è la categoria degli inconsapevoli, come la definisco io: quelli che ritengono di poter utilizzare a piacimento le categorie del fascismo senza preoccuparsi dei danni alla memoria storica del Paese che questo comportamento fa nascere. Sono quelli che scherzano sul duce e ne minimizzano la pericolosità storica, dicendo che non serve più a nulla, oggi, parlare di fascismo o antifascismo. Di solito sono anche quelli che non hanno particolare attenzione al vivere comune e che più in generale guardano con sfiducia alle istituzioni democratiche. Sono quelli che al bar, o anche in parlamento, tra il serio e il faceto invocano “l’uomo forte” per risolvere i problemi del paese. Questa ultima categoria è, ahinoi, molto, molto più numerosa».
Dopo il ’45 perché non abbiamo avuto un processo al fascismo?
«Per due ordini di ragioni: nel 1945 la difficoltà oggettiva di rispondere alla domanda “chi è fascista?” vale a dire di chiarire nettamente chi andasse punito e chi no, per i 20 anni regime, fece sì che in molti aderissero all’idea che fosse meglio “pacificare il paese” anziché portarlo a una resa dei contri tra fascisti e antifascisti che sarebbe probabilmente sfociata in uno scontro armato. Non dimentichiamoci che 20 anni di fascismo avevano permeato capillarmente la società italiana; non solo le istituzioni e la politica, ma anche la cultura e la società. Il secondo ordine di ragioni è il fatto, triste da notare, che nessuno fuori dal paese richiese o addirittura impose, come avvenne in Germania, un processo di defascistizzazione. La guerra fredda incombente suggerì agli Angloamericani di non infierire sui nuovi Alleati nella lotta al comunismo, e pertanto anche le blande operazioni di ripulitura che gli Alleati imposero ai tedeschi – e che furono spesso solo di facciata – non furono invece richieste agli italiani. I quali, lasciati soli col proprio lavoro di memoria, preferirono dimenticare».
Provando a comprendere i vecchi nostalgici del partito, con annesse virgolette su ‘comprendere’ e lecite smorfie di disappunto nel dire ciò, i giovani che rivendicano un regime che non hanno vissuto, perché lo fanno?
«Per prima cosa perché, credo, non hanno idea di cosa significhi vivere sotto un regime totalitario. La nostalgia per un passato sconosciuto è semplice e la si può declinare in molti modi: è facile, molto facile, pensare che “si stava meglio quando si stava peggio” anziché costruire un futuro migliore tutto nuovo. In secondo luogo temo che il sistema democratico rappresentativo così come lo stiamo conoscendo in questi anni abbia deluso molti, non solo a destra. In questo senso le derive fascistoidi, specie nei giovani, sono un sintomo della crisi della nostra democrazia».
L’ex presidente Cossiga, in una lunga intervista a Andrea Cangini disse che con l’avvento della televisione, i politici avevano perso il loro carisma, rimpiazzato da un criterio popolare giudicante e votante di ‘simpatia personale’ e capacità di ‘stare in scena’. In soldoni, i politici avevano smesso di fare politica per fare televisione e intrattenimento. Con l’arrivo dei social invece, gli interventi cinguettanti fuori controllo, la pubblicazione di video e foto degli addetti ai lavori, (talvolta poco inerenti con il loro mestiere), in cosa si sono trasformati?
«Cossiga in questo fu un bell’esempio di trasformazione, con la spettacolarizzazione di un ruolo per definizione fino a quel momento muto e censorio quale quello della Presidenza della Repubblica. Comunque in generale ritengo che questo modello di comunicazione politica, basato sui social, non sia nient’altro che una riproposizione di un modo di parlare “alla pancia della gente” molto antica… derivante direttamente dalle piazze degli anni Trenta. Non parlerei di un cambiamento rispetto al populismo novecentesco, ma di una semplice evoluzione tecnica».
Un conto rimasto aperto è il sottotitolo del tuo saggio. Ti riferisci anche alla legge Fiano in attesa di essere calendarizzata?
«La legge Fiano, ancora ferma in parlamento, è un esempio molto significativo di come il rapporto del nostro Paese con la sua memoria sia complesso e in continua evoluzione. La legge Fiano, in questo senso, è l’ennesimo tentativo di ridefinire che cosa sia il fascismo e come lo si debba sanzionare. Ma è una tappa di un percorso che vedo ancora lungo».
Il cinema, scrivi nel tuo saggio, poteva ricostruire una coscienza pubblica, invece come ha raccontato quel periodo storico?
«Come un momento di disorientamento collettivo, in cui, appena possibile, gli italiani dimostrano le loro qualità innate: bontà, altruismo, senso di giustizia. Una grande teoria di film che assolvono la società italiana dalle proprie responsabilità forgiando miti duri a morire, come quello degli italiani “brava gente” o della totale subordinazione degli italiani ai tedeschi. Il cinema, non solo quello italiano, peraltro, ha riconosciuto per molto tempo solo un “cattivo” protagonista: i tedeschi. Tutti gli altri, italiani compresi, hanno sempre rivestito ruoli da comprimari, addirittura riottosi, dei nazisti. E questo da Roma città aperta fino a La vita è bella. Con buona pace della realtà storica».
Sempre a proposito di social: l’inquinamento dell’informazione, le fake news, I falsi storici possono essere una forma di censura? Qual è secondo te la più eclatante (tra le fake news) che ha ancora profonde radici?
«Credo ci siano due modi per bloccare la capacità di una società di informarsi correttamente: stoppare le informazioni alla fonte; è ciò che fanno i regimi oppressivi mettendo in galera i giornalisti o chiudono i giornali. Oppure si può aumentare il flusso di informazioni fino a intasarlo dicendo tutto e il contrario di tutto. In questo modo è l’intero sistema dell’informazione a saltare, perdendo di credibilità. La fake news più eclatante, e deleteria, è proprio questa, a mio giudizio: vale a dire credere che sia impossibile, nel mare delle informazioni, riuscire ad informarsi».
Definire ‘fascisti’, usare quindi vecchi termini, non potrebbe essere un modo errato di descrivere certi comportamenti contemporanei?
«Il termine, sono d’accordo, va usato con attenzione: non tutto ciò che è autoritario è fascista. Ma sulla scorta di letture come quella di Umberto Eco mi sento di dire che quello a cui si sta assistendo in Italia oggi è proprio una deriva che ha le caratteristiche, tutte italiane, di una deriva fascista. Nei modi, nei gesti, ma anche nei riferimenti storici e nelle retoriche politiche».
Da storico della mentalità che, come dici, si occupa per lo più di gente morta, ti chiedo di parlarmi invece di questo nostro particolare momento storico: tra chi imbratta la statua di Indro Montanelli, chi chiede scusa a Mussolini dopo aver servito in un ristorante una famiglia di colore; chi in piena pandemia, giornalisti compresi, riprende simbologie patriottiche, espone bandiere al balcone e canta inni nazionali, e chi invece pur di sentirsi al sicuro, afferma di esser disposto a rinunciare a una dose di libertà personale.
«Rispondo non da storico, ma da cittadino. C’è molta, molta confusione sotto al cielo. In generale vedo una società smarrita, con pochi riferimenti saldi, priva di un sistema valoriale comune (si pensi a feste che dovrebbero raccontare agli italiani a loro stessi, come il 25 aprile, e che invece sono tra le più divisive). Questo porta a derive all’indietro e a balzi in avanti. Tra l’altro, alcune più che condivisibili. Sono convinto, e ora lo dico da storico, che spesso chi abbatte le statue non cancella la storia, ma la fa!»
«Io do una importanza relativa al fatto che in Parlamento ci sia un partito di tipo fascista perché vedo le cose in termini politici. I fascisti lei li può sciogliere quando vuole e come vuole: ciò non basta a sopprimerli. Per sopprimerli occorre strappare le radici sociali, politiche, psicologiche che producono il fascismo. E queste radici non sono state ancora strappate, solo tagliate in superficie» lo disse Pietro Nenni in una intervista a Oriana Fallaci, pubblicata nel ’74. Discutiamo delle stesse questioni, ancora? Perché?
«Perché, purtroppo, dal 1974 non sono cambiati i termini della questione. Stiamo ancora discutendo dello stesso problema, senza la capacità di approfondire o rileggere un problema di memoria che ci trasciniamo dal 1945».
Quando finiremo di parlare di fascismo?
«Spero mai, se si tratta di parlarne come di un evento storico: nel senso che sarà sempre utile, anzi necessario, analizzare quale fu e quali crimini commise il totalitarismo made in Italy. Spero finiremo di parlarne prestissimo invece come di un pericolo presente e concreto».
Di cosa ti occuperai nel tuo prossimo saggio?
«A questa domanda non risponderò ora, ma alla prossima intervista (così sono sicuro che mi ricontatterete!)»