Un po’ Giobbe, un po’ Cristo è Morris Bober, uno dei protagonisti de “Il commesso”, capolavoro del geniale Bernard Malamud. Umile, amante del lavoro e della vita onesta, il negoziante è il paradigma della narrativa dal tocco amaro di Malamud, che nello stesso romanzo si cimenta anche con una grande storia d’amore, quella tra il garzone Frank Alpine, ex ladruncolo di origini italiane, e la figlia di Morris, Helen
Se mai esista nei romanzi un comun denominatore che ci possa far dire, ecco questa è la cosa che ci fa amare quel dato romanzo, quella stessa caratteristica che a seconda delle nostre personali inclinazioni ce ne ha fatti amare tanti altri, quella cosa che cerchiamo in una narrazione che ci faccia riconoscere quel vibrare, quella tensione, stilistica, emotiva o etica che sia, nel caso de Il Commesso (325 pagine, 15 euro) di Bernard Malamud (Minimum fax 2013, traduzione di Giancarlo Buzzi) almeno nel caso di chi scrive, quella caratteristica è fare il tifo per i personaggi, parteggiare per loro, interessarsi alla loro sorte, come se fossero nostri amici, congiunti, figli, in ogni caso persone alle quali teniamo, interessandoci a loro e volgendo con tutte le nostre forze e attenzione gli occhi su di loro, nella speranza che le cose volgano al meglio e andando così avanti a leggere fino alla fine, augurandoci che finalmente spetti loro, nel caso in questione Morris Bober, Frank Alpine, Helen Bober, quella fetta di felicità in terra che il destino sembra negargli continuamente. L’autore non ha bisogno di particolari presentazioni: due National Book Award, un Pulitzer e presso i nostri lidi il suo aver trovato posto nei Meridiani Mondadori, parlano per lui. Benché non sia Il Commesso ad aver ottenuto i suddetti riconoscimenti, il romanzo del 1957 di Bernard Malamud è da più parti giustamente ritenuto il suo capolavoro.
Il droghiere dall’etica semplice
Morris Bober, titolare di un negozio di alimentari dalle scarse fortune in un sobborgo di Manhattan nel secondo dopoguerra e Frank Alpine, un ladruncolo di origini italiane che diventerà il suo garzone (il commesso) possono essere annoverati sicuramente fra due dei personaggi più memorabili della letteratura del Novecento. Il negoziante Morris Bober (bober in yiddish significa di poco conto, mediocre) ha una piccola drogheria che per effetto della concorrenza è alle soglie del fallimento. L’improvvisa comparsa di Frank Alpine, un vagabondo proveniente dall’Ovest dal difficile passato, sembra potergli dare in qualche modo una speranza. La fiducia che il negoziante concede al commesso, lo stesso che in precedenza lo ha rapinato è mal ripagata e la sua storia si intreccerà con la nascita del contrastato amore di Frank verso la figlia di Morris, Helen. Morris è stanco, avvilito ed è bisognoso di aiuto. Sembra essere sempre sul punto di mollare tutto, (negozio compreso) eppure la sua umiltà, la forza della sua etica semplice ma chiara, il suo amore per il lavoro e la vita onesta, il suo fidarsi e affidarsi agli altri lo portano a lottare contro tutte le difficoltà, compresa l’avversione della moglie Ida verso il goy (non ebreo) Frank, e a non piegarsi mai nel cercare scorciatoie o inseguire il sogno di facili guadagni. Nelle parole di Morris Bober risuona la sapienza biblica di Giobbe, di «colui che sopporta le avversità» del quale il Signore disse a satana: «Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, teme Dio ed è alieno dal male».
Le più dure prove
C’è molto nel romanzo di Malamud del senso di colpa tipicamente ebraico, la perseveranza, l’obbedienza, i rimorsi, la dimessa preghiera, «Come puoi o Signore accanirti ancora in questo modo» dirà Morris in un suo momento di sconforto, c’è la speranza, che non abbandona mai Morris Bober e nemmeno Frank Alpine, c’è una grazia e una luce biblica ed evangelica che si diffonde sulle pagine a dispetto delle più dure sentenze che scaturiscono proprio da quelle pagine: «A chi ha sarà dato» oppure l’amara consapevolezza che «Il Signore ama i poveri, ma aiuta i ricchi». Eppure le più dure prove non fiaccano la dignità, la sacralità e la morale di Morris Bober, quasi un Cristo moderno o più semplicemente un vero ebreo come emerge dall’orazione funebre nella quale il rabbino, pur riconoscendo che Morris Bober si era insozzato coi gentili vendendo loro carne di maiale ammetterà: «Sì, per me Morris Bober era un autentico ebreo, perché viveva nell’esperienza ebraica, di cui custodiva il ricordo, e un cuore da ebreo».
Lo sguardo pietoso
La storia narrata è in parte la rivisitazione dell’infanzia di Malamud, figlio di emigrati ebrei russi nella New York del Novecento. Tracce autobiografiche si colgono ovunque, a partire dalla citazione della polmonite che si porterà via Morris Bober, malattia che lo stesso Malamud aveva contratto da ragazzo e dalla quale si salvò miracolosamente.
Lo sguardo pietoso che Malamud getta verso i suoi personaggi si concretizza nello stile utilizzato, quel “pudore narrativo” di cui parla Marco Missiroli nella prefazione, quello sguardo che in ossequio alla lezione cechoviana del «show, dont’t tell», li tratteggia e li lascia parlare, non sovrapponendo l’io pensante dell’autore ai dialoghi dei protagonisti, vero asse portante del romanzo e di molte altre prove narrative di Malamud, compresi gli innumerevoli racconti, tutti raccolti oggi in oltre mille pagine sempre da Minimum Fax e che ne fanno insieme a Cheever e Carver uno dei grandi maestri americani del narrar breve.
La storia d’amore
Il romanzo di Malamud è anche una storia di amore, quella di Frank Alpine per la figlia di Morris Bober, Helen. Le storie d’amore sono da sempre nella letteratura quelle che spesso caratterizzano un’opera e che ne possono decretare l’eternità e la grandezza. Non si sprecheranno certo qua esempi, valga solo Romeo e Giulietta che non a caso l’autore cita raccontando di come Frank regalando a Helen il volume con tutta l’opera teatrale del Bardo, regalo che Helen rifiuterà, lo stesso tomo si aprirà cadendo sulle stesse pagine che narrano la storia dei due sfortunati amanti. L’ostinazione di Frank Alpine, il frangersi e ritirarsi del sentimento fra i due giovani ostati dalle differenti classi sociali e appartenenze, lui goy, non ebreo, ricorda per certi versi i Montecchi e i Capuleti. Tanto per restare oltreoceano e nel Novecento si potrebbe citare Stoner di John Edward Williams, romanzo ormai cult e capolavoro riconosciuto tardivamente dell’autore connazionale e contemporaneo del più celebrato e sicuramente più prolifico Malamud. Ognuno allo scopo del decretare quale possa essere la più bella storia d’amore mai raccontata potrà mettere le proprie caselle e stelline, quel che è certo è che l’esperienza dell’amore opera in Frank Alpine una trasformazione, come anche accadrà a Helen, al suo sguardo e sentimento verso di lui, contrastato interiormente e esteriormente e che evolverà e opererà in lei un mutamento, tanto da farle riconoscere: «Frank era stato una certa cosa, sporca e meschina, ma c’era qualcosa in lui, qualcosa che Helen non riusciva a definire, forse un ricordo, un ideale che magari aveva dimenticato e di cui si era ricordato – e questo l’aveva trasformato, ne aveva fatto una persona diversa». Non può che venire in mente il Raskol’nikov di Delitto e castigo, la sua stessa aspirazione alla redenzione che nel finale del capolavoro di Dostoevskij si concretizzerà con l’amore di Sonja che lo seguirà nei suoi lavori forzati in Siberia.
Il tocco amaro e la gentilezza del romanzo di Malamud, quello sguardo amorevole che dovrebbe far parteggiare ogni lettore per la miglior sorte di questi grandi, modesti e dignitosi eroi è l’eco che rimane di un grande racconto insieme a cose che si auspica rimangano in sospeso e inevase, come quelle domande su cosa ci voglia comunicare un romanzo, una storia che magari anche dopo anni ci risuona dentro, della quale sentiamo ancora il riverbero dentro di noi, la lunga durata di questi riverberi che è la vera misura del suo valore, per magari capire semplicemente che non avere alcuna risposta a quella domanda è la bellezza della letteratura.
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