Area 22. La satira inferocita e lucidissima di Fux

Otto ritratti, piccole biografie, psicografie, compongono “Sulla follia ebraica” di Jacques Fux, primo passo di una nostra nuova rubrica. L’autore vuol smontare i luoghi comuni che hanno sempre relegato l’ebreo dentro il ghetto socialmente più discriminante, quello della follia. Eppure fa credere che il primo ad essere caduto nella trappola del luogo comune sia lui, ma è un’illusione strategica.

Si inaugura oggi con questo articolo una nuova rubrica su LuciaLibri: AREA 22 – logo di Salvo Garufi, qui la sua pagina Instagram – uno spazio interamente riservato alla letteratura e alla cultura ebraica. Il numero non è casuale: 22 sono le lettere con cui è stato creato il mondo, e la letteratura continua sempre l’opera della creazione (ne facciamo esperienza tutti, quando leggiamo un libro!); il riferimento al concetto di “area”, invece, potrebbe far pensare ad uno spazio chiuso, ad un perimetro forse troppo delimitato o misurabile; ai più fantasiosi potrebbe far venire in mente persino l’Area 51, quella degli alieni! Si è giocato con tutti questi significati, per usare – guarda caso – la stessa ironia di Jacques Fux (l’autore di cui parleremo oggi), ma associando a quest’area il numero della creazione: leggere ci fa appartenere ad uno spazio preciso, ma che si estende senza interruzioni di sorta, e dove gli unici confini visibili – appunto! – sono le pagine di un libro.

Spunti che mettono germogli

Ora… esistono libri che nascono in un modo, assecondando cioè una precisa intenzione, e si sviluppano poi in maniera esattamente contraria rispetto alla loro origine, producendo talvolta un esito che non solo si rivela inatteso ma, nella migliore delle ipotesi, risulta di gran lunga superiore a ciò che sarebbe stato se idea e contenuto avessero percorso il medesimo sentiero con noiosa coerenza. È certamente il caso di questo stupefacente libro di Jacques Fux, scrittore brasiliano già autore di pubblicazioni di successo ma che, con queste pagine, registra certamente il più alto coefficiente di interesse editoriale, per tutta una serie di ragioni.

“Sulla follia ebraica” (228 pagine, 18 euro), tradotto da Vincenzo Barca e pubblicato nel 2019 da Giuntina, per stessa confessione di chi l’ha scritto nasce in un modo e termina in un altro. “Non termina”, diremmo noi, per il fatto stesso che queste pagine finiscono per aprirne tante altre se, come penso sia ovvio, un lettore che sia anche solo “medio”, dovrebbe necessariamente sentire il bisogno di andare a fare qualche ricerca per conto proprio, non tanto per “verificare” quanto scritto da Fux, ma per ampliare gli innumerevoli spunti biografici, filosofici, psicologici e storici che, come semi sparsi sul campo bianco del foglio, mettono germogli da tutte le parti.

Un “noi” talmente ampio

Di che cosa si parla? Di ebrei, nel senso più stretto. Così stretto che ad un certo punto ci si chiede davvero (e avviene già dai primissimi capoversi) se l’autore ci sia o ci faccia… Se ci stia prendendo gusto a fare l’avvocato del diavolo (salvo poi ribaltare tutto in poche battute) oppure ci stia prendendo in giro e basta. Oppure, cosa ancora più geniale, stia prendendo in giro se stesso per darci l’illusione di fare altrettanto, fino a scoprire – ma sarà troppo tardi – che in effetti a prenderci in giro siamo stati solo ed esclusivamente… noi! Tutto ruota, appunto, su questo “noi”, su questo pronome che, fino all’ultima riga del libro, non si capisce bene a quale diagramma d’insieme corrisponda. Sarà il “noi” di chi legge, pur non appartenendo al popolo ebraico? O sarà il “noi” dei lettori ebrei che, esattamente come gli altri, prima o poi finiscono per chiedersi un solenne “perché” davanti al testo?

Fatto sta che il “noi”, in questo libro, è questione molto più radicale. È un “noi” talmente ampio, talmente umano, da far crollare quegli stessi confini che l’autore sembra aver tracciato con mano ferma fin dall’inizio.

La questione della “follia”, come luogo comune antisemita, fa da sfondo a tutta l’opera, che si articola attraverso la descrizione di otto ritratti di altrettanti personaggi a modo loro “folli”, o comunque borderline, al di fuori di quella “normalità mentale” richiesta agli interlocutori morali del testo (il “noi” di cui sopra, per intenderci).

Otto ritratti e un gioco di inversioni

Ognuno dei capitoli biografici si intercala ad una breve sintesi storica dell’autore, che in qualche modo compendia – attraverso elementi tratti da studi realmente esistiti, e per questo ancora più agghiaccianti – gli elementi della descrizione precedente. Otto ritratti di altrettanti ebrei, dunque, esemplificativi come tipici argomenti a sostegno di una teoria comune e (sembrerebbe…) universalmente accettata: l’ebreo è pazzo. Donde il titolo, che già da sé porta la contraddizione di una pretesa scientifica spudoratamente satirica: c’è davvero chi ha scritto un saggio sulla follia degli ebrei? Impossibile, diremmo noi. Eppure è lì, a caratteri “claudicanti” su una copertina innocentemente celeste, come lo slancio inizialmente umoristico di Fux.

Sì, ci ripetiamo. L’autore era partito in un modo, prevedendo di usare l’ironia come strumento demistificatorio, allo scopo di smontare tutta una serie di luoghi comuni che, nella geografia e nella storia, hanno sempre relegato l’ebreo dentro il ghetto socialmente più discriminante, quello della follia. Eppure, strada facendo, sembra che Fux abbia dimenticato il genere letterario della satira ed abbia cominciato ad andarci giù pesante, ma davvero, al punto da far credere che il primo ad essere caduto nella trappola del luogo comune sia stato proprio lui! Ma è un’illusione strategica. Implicitamente l’autore si giustifica raccontando la storia dei suoi personaggi, i quali appaiono così come sono, al di là delle logiche regolari di comportamento sociale e fuori dal comune buon senso, mostrandosi davvero come portatori di un pregiudizio che forse – sembreremmo concludere tutti noi che leggiamo certi passaggi allucinanti del libro – non è così pregiudizio come sembra!

Ed è proprio in questo gioco di inversioni che si sviluppa il colpo di genio: l’autore, per smontare un pregiudizio, lo incarna attraverso i suoi personaggi e lo demistifica in sé stesso adducendo, ad ogni ritratto di follia, delle cause che, a guardarle per bene, se sono riconducibili al mondo ebraico lo sono solo perché quest’ultimo è un sottoinsieme del mondo “umano”. Cosa è dunque l’umanità? Cosa è dunque quel “noi” che per troppo tempo è stato riversato solo su una piccola parte di questa umanità? Se l’ebreo appare in un certo modo, è forse perché in qualche modo egli incarna il non senso di un’umanità votata alla follia? Può darsi, cioè, che l’ebreo – per sua natura, per ancestrale vocazione vicaria – tenda a prendere su di sé “i peccati del mondo” così da poterli annientare? È possibile che questo popolo, paradigma di ogni uomo, per completarsi e perfezionarsi insegua perennemente la propria nemesi, senza soluzione di continuità (che non sia messianica)?

Un testo bipolare

La matassa non è di quelle che si sbrogliano facilmente. Bisogna procedere con attenzione sospendendo le conclusioni. Sempre che ci si scopra obbligati a doverne trarre ad ogni costo qualcuna. Potrebbe non essere necessario. Può darsi che le conclusioni e le premesse, in un testo del genere, coincidano. Può darsi che la condanna e l’assoluzione, all’interno di un testo bipolare come questo, siano in fondo la medesima cosa.

Questo libro registra fin da subito uno “stato di sospensione”, come quello perpetuato in modo terrificante da Sarah Kofman, il primo dei tanti personaggi descritti nell’intarsio di queste vite. Una “sospensione” su tutto ciò che appare ovvio, come ad esempio il fatto che Auschwitz sia stato il male peggiore della nostra storia. Non è vero. Ciò che è accaduto dopo, nelle anime dei sopravvissuti, è decisamente peggio! Perché se sei ad Auschwitz, se ti ci trovi come prigioniero, muori una volta sola. A meno che tu non sopravviva… In quel caso, il male prodotto da Auschwitz, come una maledetta metastasi dell’inferno, cresce con te, nel tuo sangue, e nella peggiore tra le beffe diventa la tua “vita”: una morte reiterata ogni giorno, fino all’apoteosi della follia. Allora può avvenire che una piccola sopravvissuta, una bimba per esempio, che pure ad Auschwitz non c’ha mai messo piede, non riuscendo a credere che il mondo possa essere stato così cattivo, e dovendo trovare una ragione a tanta follia, proietti in sé questa cattiveria universale divenendo l’incarnazione piena di un senso di colpa che non è, purtroppo, solo qualcosa da cui essa si sente inabitata; è ciò che lei crede di essere! Diventa essa stessa il senso di colpa di un “popolo sopravvissuto”, come una sposa diventa “resto” di Israele, e sposa la morte come qualcosa che non può capire, divenendone una cosa sola. Il suo amplesso nuziale sarà il suicidio.

Ecco: è così che Fux, da ebreo, parla della follia degli ebrei. Nella sua satira inferocita e lucidissima egli non esclude affatto che siano pazzi, anzi ti convince a crederlo! Ma rimescola le carte delle cause prime facendo tagliare il mazzo a ciascuno di noi! E lo fa ogni volta, con ognuno dei suoi personaggi che poi – si scoprirà – sono altrettanti frammenti di sé stesso.

E così, dopo Sarah Kofman, prende il via la processione di altri volti, altre storie, altre follie che però non rimangono imprigionate dentro queste brevi biografie, ma emergono violentemente strabordando all’interno di un “noi” decisamente più allargato: il perimetro delle responsabilità comuni, comuni come i luoghi. Woody Allen, Ron Jeremy, Otto Weininger, Grigori Perelman, Danny Burros, Bobby Fischer e Shabbetai Tzvi. E poi, come nona descrizione, anche quella dell’autore, in un’ultima allucinata autoanalisi che, pur trovandosi alla fine, svolge la funzione di una prefazione morale.

Non è un romanzo

Una cosa che lascia pensare, o comunque accende la curiosità, è quella parolina incastonata all’interno di una vocale in copertina: dentro una “O” appare la parola “romanzo”, come se questo testo lo fosse veramente. Ma neanche per sogno! Accidenti, che svista… Può mai darsi che un tale errore sia sfuggito all’Editore? Dai, su… Non è affatto un romanzo! Sono piccole biografie, psicografie, semmai arricchite con una tale verve narrativa da far assomigliare queste storie a dei piccoli racconti sparsi! Ma chiamarlo “romanzo”, perché?

Jacques Fux, l’autore, ci scherzerebbe subito su, come fa mille volte nelle pagine del suo libro, e con spiazzante autoironia ci direbbe: “Ma ovvio, no? Un romanzo vende di più! Non dimenticare che sono…” ebreo, diremmo noi. All’istante. Appunto! Può darsi allora che, più di un’indicazione sul genere letterario, quella parolina incorniciata da un cerchio voglia essere un richiamo, un indizio, un tipico “segno” da dover permutare secondo una logica più invisibile ma non per questo meno strutturante: cosa è un romanzo? Ho fatto finta di non saperlo e sono andato a cercare sul sito della Treccani, e mi ha colpito un frammento di definizione: “scritto che narra avventure eroiche in margine alla storia”. E poi mi sono chiesto se Fux, in fondo, non volesse presentare i suoi personaggi proprio come eroi vissuti ai margini della storia, eroi secondo il senso della Scrittura, dove eroe non è chi non fallisce mai o chi possiede superpoteri; ma chi, soffocato da tutto, anche dagli sguardi tremendi di un pregiudizio perenne, riesce ad essere folle senza impazzire: rimanendo uomo!

Ho terminato questa lettura con la stessa voracità con cui l’avevo iniziata. Difficilmente un testo mi ha mai fatto immergere così tanto all’interno di un “punto di vista”, e proprio attraverso una contraddizione! Ogni volta che gli eventi narrati mi spingevano a creare una distanza tra me e il personaggio di turno, le emozioni che provavo annullavano questa distanza subito dopo!

Dovendo trarre da tutto ciò un senso funzionale, credo che sia questa la forza “creativa” di questo libro, la sua essenziale bontà, per cui in fondo ho così tanto amato leggerlo: pagina dopo pagina il testo si ritrae, i personaggi si auto-annientano, e tu vieni creato!

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