In “Pink Tank. Donne al potere. Potere alle donne” Serena Marchi intervista diciotto politiche della prima e seconda repubblica. Donne che fanno i conti con l’ostinata resistenza di una società patriarcale, esposte a critiche che ai colleghi maschi nessuno mai penserebbe di rivolgere. Un libro che punta in alto, ma…
Esistono libri che entrano immediatamente in risonanza con il lettore e altri che sgusciano via da quest’aura alchemica e che, per quanto tu possa cercare di riacciuffare, proprio sfuggono e sfuggono ancora.
Questa è capitato a me con Pink Tank. Donne al potere. Potere alle donne (204 pagine, 16 euro) della giornalista e scrittrice Serena Marchi, pubblicato da Fandango, un compendio di diciotto interviste ad alcune tra le principali esponenti della politica in Italia – quelle che hanno risposto: «Presente» all’invito – con le quali l’autrice ha discusso direttamente nei loro uffici, in casa, tra la gente… Deputate, senatrici, firmatarie di leggi, militanti, attiviste della Prima e delle Seconda Repubblica, di questo e di quell’altro colore politico; una rappresentanza più che eterogenea, insomma, per età, appartenenza politica, esperienze personali, posizioni e traguardi, tuttavia accomunata dalla consapevolezza delle difficoltà che le donne incontrano nel loro costruirsi il proprio curriculum.
Domande e risposte
In pieno stile giornalistico il testo si muove secondo la struttura a domanda risposta: perché in Italia, le donne, benché siano in maggioranza e statisticamente riescano meglio negli studi, si trovano più in difficoltà che altrove a trovare un lavoro, a conquistare una credibilità professionale, a raggiungere posizioni apicali nei campi in cui operano? E perché, quando ci riescono, vengono mediamente pagate meno degli uomini? Perché hanno più difficoltà ad entrare in politica? Perché, affinché ciò accada, devono faticare il doppio, il triplo, il quadruplo dei loro colleghi uomini?
Le risposte che la Marchi ottiene, seppur con le dovute differenze soggettive, è pressoché corale e unanime e ben sintetizzata tanto dal titolo del volume, quanto dalla copertina. Pink Tank, infatti, è un gioco di parole ispirato all’espressione Think Tank, letteralmente “serbatoio di pensiero” – più liberamente potremmo tradurla come “centro studi, laboratorio di idee, gruppo di riflessione” – le cui origini sono da ricercarsi agli inizi del Novecento in Inghilterra e poi nell’esperienza americana ai tempi del secondo conflitto mondiale, quando il Dipartimento della Difesa statunitense mise a punto delle unità speciali per studiare l’andamento della guerra allora in corso. I Think Tank sono, dunque, luoghi di analisi, di sguardo critico in cui sviluppare il pensiero politico, monitorarne le implicazioni, e anche le eventuali derive, pensare a nuovi scenari possibili. Pink Tank si configura, quindi, come un contenitore di riflessioni sul women empowerment nel Belpaese, uno spaccato fondamentale della situazione passata e attuale.
Ma non è finita qui: nel 1916 tank fu chiamato dai suoi stessi inventori, due colonnelli inglesi, il carro armato proprio per via della sua somiglianza con la tanica, che poi altro non è che un serbatoio, appunto. E non a caso un carro armato, sormontato dal classico simbolo astronomico del pianeta Venere (♀), è l’icona scelta per la copertina minimalista e un po’ pop – uno bianco candido per lo sfondo, il nero per il nome dell’autrice e il sottotitolo-claim e un rosso, con qualche punta di il magenta, fucsia e corallo – mi direte voi se sono daltonica o meno! – come a dire che quella che le donne ancora conducono ha, a tutti gli effetti, le sembianze di uno scontro, di un contrasto più che di un confronto, una contemporanea lotta per la sopravvivenza – o forse sarebbe il caso di dire per l’esistenza – del genere femminile. Chiude il cerchio la didascalia in quarta di copertina: Potere: sostantivo, maschile, singolare. I maschi non lo mollano. Andiamo a prendercelo. Onestamente un po’ troppo sessantottino come slogan per un libro che parrebbe voler andare oltre e che, ciò non di meno, accresce in me interesse e curiosità.
Minimo comune denominatore
Le protagoniste del libro sono diciotto, come detto, diciotto donne, diciotto personalità che si susseguono secondo un ordine che l’autrice sceglie in virtù della voglia di rendere dinamica e piacevole la lettura.
A una donna di sinistra ho fatto seguire una di destra, a una politica di oggi ne segue una di ieri, dopo una leader conosciuta ne arriva una meno alla ribalta. Appartenenze, principi, partiti e ideologie sono stati messi da parte per lasciare solo ed esclusivamente spazio alle loro storie e alla riflessione sulla leadership al femminile in Italia.
Incontriamo così Livia Turco, Emma Bonino, Anna Finocchiaro, Giorgia Meloni, Monica Cirinnà, Mara Carfagna, Cécile Kyenge, Daniela Santanchè, Laura Boldrini, Mariapia Garavaglia, Rosa Menga, Luciana Castellina, Irene Pivetti, Marianna Madia, Elisabetta Gardini, Emanuela Baio, Elly Schlein, Paola Binetti.
Diciotto voci. Diciotto storie. Diciotto multiformi punti di vista. Con ognuna l’autrice ha usato lo stesso canovaccio: l’infanzia, la storia familiare, l’origine della passione per la politica, il percorso all’interno dei rispettivi partiti, lo status quo della leadership femminile oggi nel nostro Paese. Le risposte che vengono fuori fanno emergere certamente differenze di prospettiva, ma anche e soprattutto un minimo comune denominatore: in Italia una donna, al di là del suo lavoro – e spesso prima ancora che per questo – viene esposta a critiche che ai colleghi maschi nessuno mai penserebbe di rivolgere.
Le ragioni di tanta, ostinata resistenza sono da cercarsi innanzitutto in una cultura profondamente maschilista e/o machista, patriarcale e padronale, una cultura che punta ancora su una netta e forte divisione dei ruoli in politica come nel sociale, una cultura che usa ancora la parola leadership come sinonimo di potere, confondendone senso e sostanza spesso anche nella forma mentis di molte donne. L’altra grande questione, in cui inevitabilmente si incappa quando si parla di leadership al femminile, è relativa all’organizzazione sociale: si parla tanto di parità, ma poi nel concreto ci ritroviamo immersi in una struttura che non aiuta le donne a fare carriera, men che mai politica, senza porle di fronte al dilemma di scelta tra la vita pubblica e/o professionale e privata. E sfido chiunque a dire che, di fatto, oggi coniugarle entrambe non sia davvero un gioco di prestigio!
C’è, poi, un altro problema di fondo che, da psicologa e formatrice, mi sta a cuore sottolineare anche se – anzi, forse soprattutto perché – nel libro non se ne fa menzione: di leadership, purtroppo, si parla molto e male. Ci preoccupiamo troppo di definirla – forse di cristallizzarla – quasi che questo ci permettesse di acciuffarla nella sua ontologia e, conseguentemente, praticarla al meglio. Ma siamo davvero convinti che il nodo cruciale della faccenda risieda nel mettersi d’accordo su cosa essa sia anziché nel divenire diffusamente consapevoli che, in quanto funzione intrinseca alle dinamiche di gruppo, è solo studiando i fenomeni gruppali, in cui di volta in volta tale funzione si esplica, si sviluppa, si snoda, cambia stile, che possiamo tentare di averne una visione articolata, poliedrica, complessa, se non altro meno basata su stereotipi e luoghi comuni?
Un quadro eterogeneo e trasversale
Devo ammettere che, complice la copertina ben studiata in termini di marketing e comunicazione, mi sono approcciata alla lettura di Pink Tank con molta curiosità; tuttavia devo altrettanto confidarvi che la mia aspettativa ne è uscita molto meno entusiasta di quanto immaginato e sperato. Il volume, che ha senz’altro ha il pregio di tracciare, in linea con lo stile giornalistico dell’autrice, un quadro eterogeneo e trasversale della tematica scelta, ha il limite della mancanza di una qualche riflessione/conclusione critica, men che mai rivoluzionaria, come, invece, il carro armato con il simbolo del femminile per cannone (♀), orientato però come la freccia di quello maschile (♂), mi aveva indotto a pensare.
Certamente Pink Tank è un bell’esempio di quanto sia importante, specie quando ci si confronta con temi d’attualità, stimolare l’ascolto prima ancora che il confronto, anzi valorizza il ruolo dell’ascolto in termini di propedeuticità al confronto, ma alla fine sembra rimanere monco, sembra voler puntare in alto, ma poi sparare basso o, peggio ancora, restare col colpo in canna.
Per quanto mi riguarda, una volta conclusa la lettura, non ho potuto fare a meno di chiedermi: possibile che, ancora oggi, la questione (della ricchezza) delle differenze tra uomo e donna sia meno affascinante di quella delle parità? Possibile che per affermare il nostro valore dobbiamo ostinarci ad agire come uomini? Perché la lezione di Jung appare ancora di così difficile acquisizione? E cosa ne penserebbe di questo tema chi non si riconosce in un’identità binaria?
Personalmente, di leadership più ne leggo, meno ne so forse perché, parafrasando Bynner, la leadership migliore in assoluto è quella di cui si conosce a malapena l’esistenza.
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