Una scrittura disarmante, intima, personale caratterizza “Il grande me” di Anna Giurickovic Dato, lunga indagine sulla presa di coscienza di una famiglia divisa, di una figlia, della precarietà delle cose. Un padre idealizzato, ma mai davvero conosciuto, sta morendo e Carla, la figlia, fa i conti con la vita e col passato di lui…
Come ci si può congedare da un padre che sta morendo? Il grande me (220 pagine, 18 euro) di Anna Giurickovic Dato, uscito per Fazi editore, è una lunga indagine sulla presa di coscienza di una famiglia divisa, di una figlia, della precarietà delle cose. Un padre che agli occhi di Carla, la protagonista, assume contorni sempre più ideali, idealizzati, di speranza ma che di fatto non conosce, «ci conosciamo davvero, papà?, domando al padre immaginario che ho inventato per me stessa. Avremo modo di conoscerci come vorrei, papà?», a causa di una separazione dei genitori che ha portato il padre a Milano e lei e i suoi fratelli Mario e Laura a vivere a Roma con la madre. Oggi la giovane donna si ritrova al capezzale di un padre che sente di aver amato «più di ogni altro, più di me stessa», con il quale ancora non riesce a confrontarsi ma con il quale vuole vivere il tempo che rimane fino all’ultimo istante, perchè sa che per la sua malattia non c’è più cura possibile. Una verità terribile di cui sono tutti consci, anche se i suoi figli faranno di tutto per tutelarlo: «la speranza non si toglie a nessuno, non pensa sia così, cara dottoressa?».
Il bambino di ieri
Carla e i suoi fratelli cercano di nascondere il dolore che affonda le sue radici in quei terreni incolti, che sono i loro corpi, «abbiamo sguardi obliqui che non vogliono incontrarsi, non li sapremmo sostenere, chiamano colpe e rivelano paure; ogni nostra frase suona forzosamente felice, volutamente simpatica», ma dietro a questa apparenza c’è il bisogno di preparasi alla separazione definitiva, «dove il certo trasloca nell’incerto». I giorni trascorrono e la malattia avanza, le terapie trafiggono il corpo malato del padre, più questo padre perde il contatto con il mondo, più, nei pensieri di Carla, torna indietro nel tempo. Torna giovane e insegue i suoi amori: le donne, la musica, la chitarra, il canto, ed è lui a inseguire Carla, quell’uomo che per anni ha trascurato e che per «comodità e nient’altro, mi illudevo che stesse bene». Un percorso a ritroso in cui, inevitabilmente, suo padre è destinato a tornare bambino, «è il bambino di ieri», quell’immagine non ancora violata dalla malattia, eccitato dalle possibilità a venire, sospeso ancora in quel tempo in cui determinare se stesso significava prendere parte alle opportunità storiche del nostro Paese. Costretto oggi ad affidarsi ad una figlia che «a dovere lo rincalza», che non è solo «un braccio che sostiene», ma è come se fosse veramente lei «quel poco di vita che gli resta». «È lui che più cresce più torna bambino, le spalle si stringono, il viso si riempie di ingenuità, il tremito delle braccia non è stanchezza, ma terrore, e lui che è padre oggi vorrebbe essere figlio».
La commistione dei ruoli
La forza del romanzo di Anna Giurickovic Dato (qui un video di suoi consigli di lettura sul nostro canale YouTube) sta nella commistione dei ruoli, un padre che a causa di una malattia senza scampo regredisce al ruolo di figlio, e una figlia che senza troppa consapevolezza fa della cura l’ultimo spazio comune con il padre, ribellandosi alla deriva delle cose, «io sola voglio esserti figlia, papà». La cura diventa dialogo in cui Carla perde, per trasformarsi, i suoi punti di riferimento, diventa donna all’ombra di quel padre che «ondeggia come una pianta nel vento, stornisce più sottile di una foglia». Si accorciano le distanze in questa mescolanza di affetti, in cui Carla riscopre un amore non dovuto, ma trasfuso dalla vicinanza del padre, in cui sempre più albergano «confusione, delirio e ragione», sentimenti acuti e contundenti pronti a colpire senza possibilità di prevedere cosa porteranno con sè. Ed è in uno di questi momenti che il padre la mette al corrente di un segreto inconfessabile (quanto fondato? quanto consapevole?) che potrebbe cambiare, ancora una volta, le carte in tavola. È nella malattia che i suoi figli conoscono il padre, la sua fragilità coraggiosa e terrificante ed è in questa condizione che Carla abbandona il proprio guscio, per rimettersi in gioco: «sono o non sono io quella dentro il mio corpo?», una figlia sconosciuta che nell’intraprendere questo viaggio con il padre, cerca il modo di congedarsi da lui, ma anche da una parte di sé. Dalla giovane donna che era.
La doppia cura
La stessa cura prestata al padre morente, sarà una lenta cura per se stessa, sarà prendersi cura di quella ragazza che si è sempre ritenuta figlia, imbrigliata in un ruolo, prima di essere donna. «L’amore è prendersi cura», ha detto Michela Marzano, «amare significa accompagnare l’altro, cioè permettere a questa persona di attraversare le proprie contraddizioni, le proprie fratture e le difficoltà della vita», e la protagonista de Il grande me, risiede nella cura, attraverso la cura per il padre coglie se stessa: «mi sono compresa grazie alla sua comprensione, e mi sono riconosciuta quando lui mi ha spiegato com’ero e come sarei diventata», confessa al lettore. Una scrittura disarmante, intima, personale. Una storia apologetica, quella proposta da Anna Giurickovic Dato, in cui la verità si mostra agli occhi di una figlia e sconfigge il limite umano dell’essere tangibile. Un “grande me”, suo padre, che diventa quasi oggetto di fede, «ne ho fatto un Dio e l’unico mio credo» che trasforma il dialogo e il loro rapporto mettendoli sullo stesso piano, eliminando ruoli, finendo per essere complessi umani senza riparo: turbati e implacabili.