I fratelli di Insolia non hanno niente e sono voraci di tutto

Vulnerabili, instabili, rabbiosi, tormentati dalla coscienza d’essere diversi, capaci di esplodere in violenze inaudite. Sono Antonio e Paolo, protagonisti de “Gli affamati” di Mattia Insolia, romanzo pulp senza cali di tensione, con un controllo stilistico da autore consumato

Teresa Ciabatti, fra le più importanti autrici italiane contemporanee, negli ultimi anni ha puntato su alcuni talenti in grado di mantenere le promesse – Fuani Marino, Jonathan Bazzi, finalista all’ultimo Strega, Ginevra Lamberti – e ora si sbilancia su un siciliano di belle speranze, Mattia Insolia, classe 1995, ex allievo della scuola Holden, autore per Ponte alle Grazie del convincente romanzo Gli affamati (170 pagine, 14 euro). Nel blurb in copertina Ciabatti scrive: «Il romanzo sorprendente di uno scrittore giovanissimo, eppure già maturo». Difficile darle torto. Gli affamati è un romanzo pulp coi pregi del debutto (ma non è tecnicamente un esordio, visto che cinque anni fa ne aveva pubblicato un altro) in termini di freschezza, dialoghi sciolti, più un controllo stilistico della pagina da autore consumato, senza cali di tensione.

Divorati dall’esistenza

Il romanzo è ambientato in un centro inventato del Sud, inventato ma non troppo.

Si nasceva, si invecchiava, si schiattava. E tra una cosa e l’altra si era obbligati a trovarsi un impiego normale. A sposare una donna normale. A scodellare una figliata normale. Una storia tutt’altro che eccezionale, un’avventura per niente incredibile. Era tutto prestabilito, a Camporotondo.

Due vite ai margini e ai limiti sono scandagliate, quelle dei giovani fratelli Antonio e Paolo Acquicella: la madre li ha abbandonati poco più che bimbi, il padre – che alla moglie non risparmiava violenze – è morto. Divorati da un’esistenza che non riescono ad accettare, fra dolori, rinunce, fughe, sbandati, affamati di vita, accumulano ciarpame e cianfrusaglie (come i fratelli Homer e Langley del romanzo di E.L. Doctorow), passano le serate fra alcol, canne, prostitute, voraci di tutto, possessori di nulla, non si fanno scrupoli a gettare sassi dai cavalcavia. Vulnerabili, instabili, rabbiosi, tormentati dalla coscienza d’essere diversi, ma capaci di esplodere in violenze inaudite (pari a quelle, per parlare di un altro sorprendente romanzo recente, scritte in Noi felici pochi di Patrizio Bati).

Tra ingiustizie e bagliori di speranza

È difficile mettere alle spalle un’infanzia bruciata, un senso d’inferiorità e un continuo disagio: le uniche traballanti certezze sono pochi amici balordi, il lavoro per Paolo (operaio in un cantiere) e lo studio per il più giovane Antonio. Tra caos, scoppi d’ira feroce, autodistruzione e un insopprimibile senso di ingiustizia addosso, le loro peripezie culminano in ripetuti guai. L’ultimo non senza conseguenze. Mattia Insolia con Gli affamati però non disegna esclusivamente – pathos sì, retorica no – un buio universo di perdizione. C’è qualche bagliore tra questi irredimibili, ci sono parziali squarci di speranza, c’è un posto nel mondo, anche se non per tutti e due i fratelli. Due destini che si compiono nello spazio fra il prologo e l’epilogo, in cui si legge: «Eravamo malati di desiderio. Scintille nel buio, abbiamo illuminato la notte e siamo bruciati di incanti e meraviglie».

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