A settanta anni dal suicidio, pubblicato “A Torino con Cesare Pavese”, volume di Pierluigi Vaccaneo, direttore della Fondazione Cesare Pavese. Un libro in cui si immagina un Pavese omerico, un non-Ulisse, come lo definisce che non raggiungerà la sua Itaca così cercata e sognata. L’autore: “Nelle sue opere troviamo la nostra strada, che poi è la sua”
«Perdono tutti e a tutti chiedo perdono»: l’ultima richiesta di Cesare Pavese è sul foglio del commiato, quello vergato tra il 26 e 27 agosto 1950, la data del suicidio nella stanza dell’Hotel Roma di Torino. Sono passati 70 anni da allora, e per riaffermare la memoria dello scrittore e la centralità della sua ricerca e della sua poetica, oggi esce per Giulio Perrone Editore A Torino con Cesare Pavese, un nuovo volume della collana geografico-letteraria Passaggi di Dogana firmato da Pierluigi Vaccaneo, direttore della Fondazione Cesare Pavese.
Un libretto che è un viaggio tra isole inseguendo i fili rossi della ricerca pavesiana: cinque fazzoletti di terra in mezzo al mare agitato dell’esistenza di uno scrittore che decise di togliersi la vita a pochi mesi dal traguardo del Premio Strega, in cui a trionfare, in quel 1950, fu proprio il suo La bella estate. Nell’inquietudine di una ricerca di identità costantemente e consapevolmente frustrata ci sono così il mito, l’America, le donne, Torino e le Langhe. Frammenti di Pavese, temi ricorrenti da setacciare con la scrittura per ri-trovarsi, nel fitto del proprio mistero, prima di restare intrappolato in un gorgo da cui non farà più ritorno. Un non-Ulisse, come lo definisce Vaccaneo, che non raggiungerà la sua Itaca così cercata e sognata.
La ricerca e il gorgo
«Raccontare è sentire nella diversità del reale una cadenza significativa – scriveva l’autore, e con queste parole si apre A Torino con Cesare Pavese – una cifra irrisolta del mistero, la seduzione di una verità sempre sul punto di rivelarsi e sempre sfuggente». Si cercava, Pavese: lo faceva nella scrittura, cui ha dedicato l’intera vita, tanto da soggiogare una voluttà di ragazzo e uomo che tornava prepotente a pulsare, lacerando. «Ciascuno ha il suo gorgo – aggiungeva infatti – e basta che vi palpiti dentro l’estrema tensione di cui la sua coscienza è capace; raccontare vorrà dire lottare per tutta una vita contro la resistenza di quel mistero».
C’è una ricerca, e c’è il mito, siamo proiettati, guidati da Calipso, in un mondo omerico tra metafore nautiche. «Ho immaginato un Pavese omerico che torna a casa, ritrova la sua patria – spiega Pierluigi Vaccaneo – ho immaginato un viaggio tra le visioni che hanno determinato il piano umano e intellettuale di Pavese, mi sono rifatto ai suoi punti di riferimento». L’America, tra tutti questi, è quella più lontana, addirittura mai raggiunta fisicamente da Pavese, eppure un punto di partenza professionale, come prosegue Vaccaneo: «è stata un riferimento per trovare una lingua che si adattasse alla sua scrittura. Pavese ha iniziato a scrivere quando in Italia c’erano l’Ermetistmo e la retorica fascista e ha visto negli americani un’opportunità di comunicazione molto più semplice, colloquiale e poetica. La letteratura americana gli ha fornito un serbatoio di temi e personaggi, ma soprattutto un modo di scrivere che ha inaugurato con Mari del sud, poesia-racconto su metro americano».
Tra fallimento, inadeguatezza e tormento
Ma l’America è oltre il mare: un desiderio, una via di fuga, un oltre, anche solo immaginato. Allo stesso modo, anche la campagna per Pavese rappresentava un oltre, non una semplice collina ma un mito, un archetipo capace di parlare in quanto simbolo. La tensione, in Pavese, è generata proprio dalla ricerca e dalla spinta verso il mondo del mito, una ricerca conclusa in dramma con la constatazione di aver fallito come uomo. «Pavese se ne rende conto quando deve fare i conti con la sua crescita umana – dice Vaccaneo – Ne La Luna e i falò lo spiega: per essere uomo devi essere stato ragazzo. Pavese ragazzo è stato zittito troppo presto perché lo scrittore voleva diventare uno scrittore, riconosciuto come tale. Questo ha imposto di smettere di fare quello che fanno i ragazzi, godersi la vita senza troppe limitazioni, cosa che invece lui ha sacrificato: a quattordici anni gli amici lo invitavano a festeggiare Capodanno e lui imparava l’inglese. Quando si rende conto che per diventare grande deve essere stato ragazzo, tenta di recuperare la sua parte infantile con l’unico strumento con cui è in grado di dialogare: la letteratura, la scrittura. Compie questo percorso di tentativi per tornare al godimento pieno delle vita con la letteratura americana, l’elaborazione della domanda sulle donne, la città come controcanto rispetto alla campagna».
Pavese si sente infatti al contempo cittadino ma irresistibilmente attratto dal mondo archetipico delle Langhe. Nato per caso a Santo Stefano Belbo – i genitori, originari di Torino, erano lì per un periodo di vacanza – è stato formato dalla città, verso la quale tuttavia si sente inadeguato. Ancora una volta, un tormento interiore, come ben illustra Vaccaneo: «Pavese aveva bisogno della campagna, della dimensione panica, dei prati e dei fiumi, ma questo bisogno era dentro il corpo di un uomo cittadino, un austero piemontese come solo nelle famiglie dell’epoca ce ne potevano essere. Maria Luisa, la nipote, ci ha raccontato in un’intervista che quando vinse lo Strega, Pavese arrivò a casa e gli dissero semplicemente bravo, facendo i complimenti e dando una pacca sulla spalla. Tutto questo accadeva dentro un sangue e un cuore che aveva bisogno del contatto panico con la natura».
L’unico modo per capirlo
A settant’anni dalla morte, è ormai possibile considerare Pavese un classico, mai sazio di cose da raccontare e interrogativi da accendere nella mente di chi ripercorre le sue parole. Ed è proprio questo l’invito del direttore della Fondazione a lui dedicata: rileggerlo. «Secondo me – dice infatti Vaccaneo – su di lui abbiamo rivoltato le nostre frustrazioni, il nostro non essere capaci. Il suicidio ha amplificato tutto questo, non lo abbiamo mai perdonato per non essere riuscito a trovare se stesso, amare le donne che voleva amare, essere stato uomo essendo stato ragazzo. Penso che il più grande regalo che potremo fare a 70 anni dalla morte, che sono tanti, è leggere Pavese, leggere la sua opera e perdonarlo, perché è l’unico modo per capirlo. L’aura di mistero che crea anche un po’ il mito di Pavese poteva esserci nei primi dieci o vent’anni dopo la morte, oggi, dopo settanta, leggiamo quello che ci ha lasciato, le sue opere, e troviamo lì la nostra strada, che poi è la sua».
Intanto, sulla strada di Santo Stefano Belbo ha riaperto, dopo il complesso periodo di chiusura per emergenza, la Fondazione Cesare Pavese, pronta a partire con il Festival 2020 in forme rinnovate e sperimentali. «Durante il lockdown ci siamo messi in silenzio cercando di seguire quanto ci ha insegnato Pavese. Eravamo in ascolto per capire quello che accadeva e che nessuno era preparato ad affrontare. In Mari del sud dice che tacere è la nostra virtù: l’ascolto vivo ci ha permesso di capire cosa ci stava succedendo intorno».
E così i luoghi pavesiani sono tornati ad accogliere visitatori con un successo inaspettato e nonostante contingentamento degli ingressi e visite guidate ridotte. Il Festival 2020 sarà addirittura rinnovato e allestito in uno spazio più grande che potrebbe restare per gli anni futuri. Tra gli ospiti in arrivo al Pavese Festival, Neri Marcoré, Marcello Fois, Boosta… Tutte le informazioni e il programma dettagliato sono sul sito. Il 24 e 25 ottobre sarà infine la volta del Premio Pavese, giunto al settantesimo anniversario e che vedrà ospite il Premio Strega 2020 Sandro Veronesi e l’attribuzione di quattro premi: narrativa, poesia, saggistica ed editoria.
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