Di Fiore: “Vorrei pubblicare libri diversi, restando riconoscibile”

Intervista a Gianfranco Di Fiore, autore del capolavoro “Quando sarai nel vento”, sinfonia dolce e amara costruita con talento, ingegno e arguzia. “È un romanzo di figure speculari, di richiami infiniti, di simboli e tracce che si rincorrono, di calcoli e passaggi quasi matematici, dove l’amore è come la brina notturna sulle foglie, che svanisce all’alba. Ne ho già pronti altri due e ne sto scrivendo un terzo. Ho bisogno di ispirazioni e suggestioni che spesso arrivano da altri linguaggi: cinema, fotografia, pittura, filosofia e musica”

Non del libro, ma dei libri dobbiamo parlare per poter discutere di Quando sarai nel vento (508 pagine, 18 euro) dello scrittore partenopeo Gianfranco Di Fiore (qui i suoi consigli di lettura in un video sul nostro canale YouTube), pubblicato da 66thand2nd. Il romanzo (ne abbiamo scritto qui) di un viaggio, o forse cento, quello di Abele alla ricerca del padre mai conosciuto; di Marlena, alla scoperta di sé stessa; di Corinne, persa mentre guarda in faccia i propri demoni; della madre, nascosta fra i suoi labirinti. Il romanzo ‘bianco’ di formazione: segue la crescita e l’evoluzione, fisica e emotiva, di questi e altri cento, strani personaggi legati da un filo rosso, e divisi da latitudini e longitudini, parallele e intrecciate. Il romanzo ‘rosso’ della passione, carnale e mentale; della malattia, del genio, della follia: quelle di Abele per la sua ‘mano guasta’ e per i venti che studia all’università de L’Aquila; della madre, donna senza nome. Lei, semplicemente madre come tante, come tutte, o forse no. Affetta dalla sindrome di Asperger e ossessionata dal modo in cui la gente abita le proprie case, geniale nel disegnare mappe che hanno senso probabilmente solo nella sua mente, o forse no. Immobile come una sfinge che sa e non può parlare. La malattia di Corinne, gemella di Abele, timida, digiuna, minima fino a voler scomparire; di Marlena, la pasionaria dai capelli colorati che accetta, come una dea, il bene e il male del mondo, inclusi i continui amori violenti, e vive di sogni. Ma soprattutto nel sogno, quello tenero e proibito di Abele che in segreto alimenta per lei. Personaggi apparentemente liberi di scegliere, viaggiare, vivere, tuttavia intrappolati in una caverna interiore piena di echi e parole che lo diventano a loro volta. Parole che si ripetono, si legano, si trasformano, spariscono e ritornano proprio come il vento o la gente che abita i luoghi per poco, per caso o per sempre. Personaggi dalla sofisticata costruzione viaggiano, ognuno a modo proprio, alla scoperta di qualcosa, qualcuno o se stessi, forse solamente per fuggire. Dall’Italia, al Sud America, alla Francia per tornare in Italia alla ricerca di Padri, indizi, geografie e legami. Un libro ovale e  labirintico, in continua metamorfosi, in cui ciò che sembra muta, per sembrare altro ed essere poi un’altra cosa. Un romanzo traslucido, in cui la superficie che brilla è tuttavia oscura e profonda. Pagine nelle quali l’arrivo ha tutta l’aria di una partenza, e viceversa. Un romanzo unico, sfaccettato, complesso e sorprendente in cui la maestria dei dialoghi filosofa con la poesia delle descrizioni dei luoghi, l’architettura, la musica, il cinema, la storia, la geografia; in cui le parole diventano corpo e vento, l’erotismo e la sensualità scivolano sottili nella corporeità delle parole, nel gioco delle metafore e similitudini, nella descrizione degli amori, per tutto il romanzo. Per tutto il tempo.

Una sinfonia dolce e amara costruita con talento, ingegno e arguzia. La ricercatezza dei dettagli si amalgama alla cura dei particolari, ai personaggi dalla psicologia sopraffine, atipici tuttavia reali o possibili. E in questo misterioso ordine di nodi, ombre, specchi, sentieri; di corpo, pericoloso e seducente, traspare senza dubbio la robusta cultura letteraria del suo autore che, dato lo spessore letterario del romanzo, sembra abbia interpretato nel proprio, tutto lo scibile umano.

L’articolo sarà lungo, tuttavia se avessimo avuto più spazio lo avremo di certo occupato per approfondire le trame di questo capolavoro di Di Fiore (qui un suo articolo per il nostro sito) che appare già come un classico, tuttavia giovanissimo e fieramente contemporaneo.

Abbiamo intervistato il suo autore.

Di Fiore, di cosa deve nutrirsi uno scrittore per scrivere un romanzo come il tuo? Tu, di cosa ti sei cibato?

«Ho scritto Quando sarai nel vento in sei anni, lavorando per dieci/undici ore al giorno, e vista così forse direi che una stesura simile ha bisogno soprattutto di tempo. A un certo punto della mia vita ho sacrificato quasi tutto, persino il lavoro e la ricerca dello stesso, per portare a termine quella che per me doveva essere un’opera significativa, non solo per quel determinato momento della vita ma soprattutto per me e il mio futuro editoriale. Non sono uno scrittore che legge tutto e in maniera enciclopedica, per lavorare in un certo modo sulla mia lingua ho bisogno di ispirazioni e suggestioni che spesso arrivano da altri linguaggi: cinema, fotografia, pittura, filosofia e in modo particolare la musica, e forse un romanzo simile ha bisogno di una dieta piuttosto varia e complessa, di cibo che tenga insieme una sterminata varietà di sapori, di colori, di forme, di materie».

A proposito di nutrimento: il cibo è una forma di piacere e di conoscenza anche nel romanzo. Il tuo viaggio è anche culinario. Per alcuni personaggi, come Corinne, il cibo invece diventa una forma di ossessione. Non si nutre, o si nutre poco, fino quasi a voler scomparire. Come mai?

«Corinne è un personaggio a cui sono molto legato, in lei confluiscono parti e dettagli di persone a me care, di donne conosciute, di ragazze che hanno fatto parte della mia vita, di altre persone, anche uomini, che nel tempo mi hanno permesso di accumulare informazioni utili specialmente riguardo ai problemi di disturbi alimentari. Per gran parte del libro il suo personaggio rimane nell’ombra, agisce e parla poco, come se il vuoto lasciato dal padre, l’abbandono subito ancor prima di nascere l’avesse costretta a una forma di implacabile e ossessiva mancanza; ed è proprio l’avvertire questa assenza in modo così fisico, oltre che spirituale, che porta Corinne a ricreare, ad accudire, a voler quasi prendersi cura di questo vuoto interiore alimentandolo con una feroce e metodica anoressia. È in quello strano limbo di sofferenza e sparizione fisica che lei incontra suo padre, il suo negativo: la sensazione di uno spazio non abitato, di una presente-assenza è il fenomeno che più si avvicina alla definizione di un genitore mai visto né conosciuto».

Abele nonostante abbia 30 anni i suoi nodi dell’anima, i feticismi e le sue ossessioni, almeno in un primo momento, ce lo mostrano come un adolescente: ruba le cartoline dalle cassette degli altri, ascolta musica techno, scatta tante foto anche in situazioni particolarmente intime, fa uso di ecstasy, non ha avuto rapporti sessuali, tiene nella tasca dei pantaloni un pezzo di sapone come un amuleto per la sua mano guasta e anche il suo importante studio dei venti, quello che potrebbe valergli meriti universitari, alla luce di questo profilo sembra un pretesto per far volare gli aquiloni. È così che vedi i trentenni di oggi?

«Non c’è dubbio che Abele sia il più simbolico e sfaccettato dei personaggi, all’interno del mio libro. Quando iniziai a lavorare alla struttura dell’opera più o meno avevo la sua età, vivevo tante delle sue vicissitudini, e come me tanti amici e colleghi universitari che non erano riusciti a trovare né un lavoro né un luogo dove poter iniziare a vivere un’esistenza adulta. Era un personaggio che già da qualche anno prima vagava nella mia mente, sono stati due anni di lavoro progettuale molto intensi e gran parte del tempo – prima di iniziare la stesura del libro – l’ho passato a definire il personaggio di Abele, e man mano mi accorgevo di lavorare alla creazione non di una persona (possibile), di un personaggio più o meno canonico, probabile, ma la sua figura veniva fuori sempre più come maceria, ecco perché a un certo punto mi sono interrogato su quale fosse il suo luogo più logico, funzionale, dove farlo interagire. L’Aquila in quel momento era la sola città che poteva permettermi una sovrapposizione con l’animo di Abele, che si era ormai ritrovato non solo a incarnare una certa generazione ma a simboleggiare quasi la decadenza e l’inadeguatezza di un’intera nazione».

Quale è secondo te il grande sogno di Abele?

«Credo che Abele in fondo non sia capace di incarnare grandi ambizioni, non è un eroe, non è nato per cambiare il mondo, nemmeno il suo interiore; forse ciò che desidera di più al mondo è liberarsi dal dolore, superare il male, poter arrivare a definire il proprio Io, a capire come avvicinare le cose e le persone, senza che queste evidenze possano colpirlo, ferirlo, lasciarlo ancora in uno stato di dolenza immotivata. Forse Abele sogna l’amore, ma non ne sono sicuro».

Malattia: un grande tema del romanzo. Soffrono tutti di una qualche forma di malattia, vera o presunta. Se non fosse malattia, sarebbe follia? Quale è il confine tra le due?

«Credo che la follia spesso non è altro che una diversa forma di essere, o di intelligere. Certificato un danno, una devianza, una stortura fisica-mentale, quella persona o quell’essere vivente non fa altro che cambiare, mutare i suoi atteggiamenti, sperimentare un nuovo luogo della mente e del mondo, delle emozioni e del come comunicarle. Se partiamo da questo dato allora malattia e follia sono la stessa cosa, cioè sono così simili e naturali nel loro innestarsi nella vita e nelle persone che la loro classificazione si azzera, non ha più senso: l’importante è assegnare ai diversi il loro posto, lasciare che vivano per come la loro mutata natura gli permette, senza additare o pretendere o limitare quella nuova anima. Se poi accettiamo l’assioma filosofico per il quale “appena nati siamo pronti per morire” si fa presto a intendere quanto la vita, l’anima, la mente, il corpo, ogni nostra funzione si rompa o inizi a decadere, ad ammalarsi un attimo dopo esser venuti alla luce. Siamo sempre malati, caduchi, corrosi, e magari anche sempre folli, e anziché puntare la luce e far venire fuori queste crepe o tensioni ci illudiamo, con violenza, di poter definire una stupida normalità. Ma il discorso è complesso, lungo, ha una radice elitaria, borghese (come ormai è diventata l’editoria in genere) e dovremmo parlarne per mesi».

«Il troppo amore rende storpi», scrivi nel libro.  È così? Che tipo di amore è quello che reticola il romanzo?

«Credo che in generale, nella vita, spesso si sbagli o si faccia del male per troppo amore, o per paura di non saperlo donare. La libertà crea a volte dei problemi, delle incomprensioni e non di meno possibilità di ferire, di sbagliare, questo perché ci si dimentica o non si vuole pensare a quanto l’equilibrio sia necessario: gli eccessi, il folle amore, la perversione senza freni, la ricerca di un limite, qualunque esso sia, voler esperire la libertà suprema anche nell’amore vuol dire esporsi a una flagellazione silente, di cui non ci si rende conto, e della quale si riesce ad avere contezza soltanto in età adulta, o magari dopo tante sofferenze o problemi, per i più fortunati. Ci sono però persone che sono in grado più di altre di rischiare, di sopportare, di lottare, di perseguire un limite anche a costo di perdere tutto e allora anche la de-formazione si mette in conto, la si accetta, e per certi versi ci migliora. Ma non tutto è per tutti, e magari riflettere e acquisire una funzionale idea di confine potrebbe aiutare. L’amore nel mio libro credo sia come la brina notturna sulle foglie, che svanisce all’alba».

Esiste secondo te una passione che non sia sofferta con amore e dolore?

«L’etimologia del termine passione ci dice già tutto: il patire, la sofferenza, il restare fermi, paralizzati da questa forza che ci vieta qualsiasi azione, non può che lasciare intendere quanto sia impossibile slegare il dolore dalla passione. Credo però che una possibilità meno ostile e dolente possa essere la condivisione; quando si percorre una stessa vibrazione, quando si sta insieme nel turbamento, accettando la realtà e la gioia di questa paralisi, forse si soffre meno, o addirittura si riesce a sublimare la vertigine in gioia, in piacere reale».

«Ciò che vedi con i tuoi occhi non devi inventarlo con la lingua». Mi sono chiesta se tutto quello che hai descritto lo hai vissuto e quindi se anche gli Hensel, questa coppia di forse ebrei assai strampalata non nasca da un qualche tuo singolare incontro…

«Tutte le cose che scrivo, siano racconti o romanzo, nascono da profonde osservazioni, da elementi reali, di vita vissuta, e di certo anche gli Hensel sono arrivati nel mio romanzo dopo alcune esperienze dirette, persone che ho conosciuto e di cui ho sentito molto parlare, in passato, e che mi son portato dentro per anni, fino a quando non è capitata l’occasione di poterli trasformare in personaggi di un romanzo. Ma il dato realistico poi diventa solo un pretesto per parlare di altro, i miei mondi linguistici sono aperti a una dimensione simbolica e concettuale che aspira o cerca di raggiungere principi e aspetti ben più universali. Questo per dire che vivere per un po’ in via Monte delle Capre, zona Magliana, a Roma, non è per niente un fatto irrilevante».

Nel libro sono disseminati indizi, assonanze tra luoghi e persone, simboli numerici e leitmotiv. Sembra che tu abbia studiato ogni virgola con minuzia chirurgica. Cosa sfugge ancora a noi lettori?

«Il romanzo è senza dubbio maniacale, per certi versi autistico (per me nel senso più nobile e alto possibile), proprio come la malattia nasce menomato, molti dei personaggi vivono delle vite involutive, con gravi limitazioni, ma è anche vero che ci sono poi delle possibilità, degli aspetti vitali e spirituali che raggiungono elevati picchi di intensità, talenti e potenziali che soltanto una condizione di anormalità può lasciar attecchire in un personaggio. È un romanzo di figure speculari, di richiami infiniti, di simboli e tracce che si rincorrono, di calcoli e passaggi quasi matematici, e all’interno di questo spettro ampissimo e complesso sono presenti tante citazioni, rimandi a persone o personaggi reali, o di altri libri e opere, e tanti di questi non verranno mai svelati…a meno che non sia io a dirlo».

Il grande rebus della vita, essere o non essere, credo sia quello che muove le fila del romanzo. Essere perché si ha un nome, un posto nel mondo, una identità: nel libro la madre è semplicemente madre, non ha un nome , proprio come i cani degli Hensel, tuttavia la madre da il nome alle bare (sono curiosa di sapere cosa significhi) mentre il padre, benché sia il grande assente, ha un nome ma non un volto. È necessario un nome per Essere o sia può essere anche in forma di vento?

«Come dicevo poco fa, il romanzo è una sorta di sversatoio dove confluiscono linguaggi, discipline, arti da me studiate o praticate a lungo, e di certo l’elemento fondativo della mia poetica, più che la letteratura, lo studio della lingua e dei suoi simboli, è la filosofia. In questo caso la tua domanda pone attenzione su questa dimensione filosofica che in parte è incarnata dalla madre (volutamente senza nome, più che altro è una generatrice, è una matrice più che una madre, quasi un verbo neutro, immanente, un Logos che contiene in sé ogni linguaggio o codice, che traduce per gli altri personaggi sotto forma di fax), dall’altra parte il problema della nominazione e dei nomi ha a che fare con una parte della filosofia analitica (cos’è che definisce Gianfranco Di Fiore? Il suo nome, cioè il suo designatore rigido, oppure le sue qualità, le proposizione con cui possiamo sintetizzarlo: uno scrittore, un uomo con pochi capelli, un maschio con gli occhiali gialli, un tifoso del Napoli che ancora spera di vincere la Champions League?). si tratta di questioni che sono state affrontate più che altro dai filosofi anglosassoni, uno su tutti Saul Kripke, del quale consiglio la lettura di Nome e necessità. In più resta poi il tema dell’Essere, e quindi Heidegger è l’altra ombra che si muove in trasparenza, nelle pagine del libro, soprattutto quello di In cammino verso il linguaggio. Uno dei tanti temi del romanzo è il problema di poter, dovere, saper dare il giusto nome alle cose.

Marlena mi ha dato l’impressione di non riuscire a trovare il suo posto nel mondo. Una pasionaria, una donna che vuol cambiare le cose, appassionata ma senza radici. Raccontamela.

«Marlena è forse il personaggio che mi somiglia di più, non a caso ama i film e lavora per il cinema, riesce suo malgrado, e malgrado il mondo e le implicazioni dolenti dei rapporti, a frapporre una sana distanza fra sé e le cose. Dovessi darle una definizione direi che è come “un sogno deietto sulla Terra”, una possibilità scagliata al suolo, una fragranza confusa e luminosa gettata nel mondo, in caduta chissà da quale spazio, da quale dimensione. È in qualche modo aliena ma anche terribilmente umana, reale, sensibile. Somiglia molto al vento».

Il viaggio di ricerca del padre, conduce Abele a una serie di interrogativi che trasversalmente coinvolgono tutti i personaggi del libro fino a una visione complessiva quasi cinematografica. Marlena di questo viaggio vuol fare addirittura un film. Tu hai lavorato per il cinema, come regista e montatore, e per il Festival Giffoni, come ti ha influenzato questa arte nella scrittura?

«Il cinema è stato decisivo e totalizzante nella mia vita ben prima della Letteratura. Ma prima del cinema e di ogni altro linguaggio artistico c’è stata la musica: nasco da una famiglia di musicisti e ho iniziato a studiare solfeggio e clarinetto a cinque anni. La mia Scrittura è totalmente condizionata da queste due scansioni: il ritmo sonoro, soprattutto nella punteggiatura (scrivo guardando a una partitura, a un pentagramma più che a un foglio bianco A4) e il ritmo del montaggio (quando scrivo e compongo una scena, o una sequenza, non penso mai a un romanzo, a un libro, alla pagina, in quel momento sto realizzando il mio film sulla carta, e più che le dita o la penna sul foglio muovo la macchina da presa, il mio punto di percezione ottico in uno spazio, con dentro dei personaggi e dei colori).

Anche nel tuo romanzo è possibile abbattere la quarta parete?

«Non credo di pensare alla quarta parete con lo stesso intento di Brecht o Pirandello, o altri registi che hanno cercato di avvicinare il più possibile lo spettatore alla visione, o ai personaggi e agli spazi delle loro rappresentazioni. Forse la mia ambizione è diversa, cioè riuscire a sovrapporre totalmente la mia visione a quella del lettore, creare una sorta di prospettiva-guida che possa accompagnare chi legge in ogni angolo o strada o paesaggio dei miei libri. Mi piace l’idea che il lettore non debba accorgersi della parete, della distanza e in un secondo momento pensare a come poterla superare: vorrei che dopo le prime righe dei miei incipit i lettori fossero totalmente dentro al linguaggio, immersi nella mia lingua, potessero osservare, camminare, muoversi, ascoltare, recepire caldo e freddo e odori al mio stesso modo, e alla fine ricordare loro che l’opera rimane a sé, in parte sconosciuta, ma che possono renderla viva e migliore attraverso la loro analisi, il loro giudizio, e tutte le ultime emozioni che si sono portati dietro durante il viaggio».

Il padre di Abele e Corinne, come dicevo prima, è il grande assente. Tuttavia  ci sono altre figure paterne che emergono nel romanzo anche nel senso più ampio del termine: penso ad Abele che farà da padre a Corinne, e forse un giorno sarà padre a sua volta, Walt Withman sembra essere il padre letterario di Marlena. Anche tu hai avuto figure paterne per scrivere il romanzo? Chi sono?

«Come già detto le mie fonti di ispirazioni sono innumerevoli e spesso la maggior parte non rientra nel panorama letterario. In questo caso però ci sono almeno 4 nomi che sono stati da me volutamente omaggiati, nelle 4 sezioni del libro, ognuna delle quali affonda radici in un determinato genere letterario, per sintetizzare potrei dire: Salinger, Soriano, Auster, Ballard ma c’è tanto Wim Wenders, e soprattutto Wong-kar Wai, David Lynch ma anche i Radiohead e James Taylor, Edward Hopper e tanta Beat Generation, gli esistenzialisti tedeschi e francesi, Louis Kahn, Daniel Libeskind, Gregory Crewdson, Mike Brodie e altri».

Il viaggio sembra una riflessione sui fatti stessi, le dinamiche psicologiche e interiori, le scelte morali e i rovelli di coloro che in questo vivono. Cosa ricercano o da cosa fuggono?

«È un movimento dialettico che sempre accade nei miei libri: i personaggi ricercano forse solo e sempre loro stessi, e da loro stessi fuggono. E in questo continuo andare e scontrarsi si ritrovano ad affrontare il mondo (esteriore) e il mondo (interiore) degli altri personaggi; i viaggi, gli spostamenti, le riflessioni, le avventure sono quasi sempre un bagliore minimo, un riflesso del tutto mentale, che si attenua con il precipitare degli eventi. Le storie, gli snodi narrativi, le motivazioni drammaturgiche, i passaggi sono spesso illusioni: non ci si muove mai, non si va da nessuna parte, tutto accade in noi, i personaggi finiscono sempre per ricadere nel pozzo della propria identità, compiuta o smembrata che sia».

Ho notato che nessuno dei giovani ha un telefonino, non cita un social network. Si comunica attraverso strumenti molto vintage: cartoline, lettere, fax. Che tempo è quello in cui vivono?

Il tempo della narrazione è volutamente sospeso, come il vento, come le vite dei personaggi, come tutti i dettagli temporali ed emotivi: tuttavia esiste un solo dettaglio in grado di poter confermare o rivelare il momento preciso in cui la vicenda si svolge, come si accennava prima è uno dei tanti simboli disseminati da me lungo la narrazione. Se vuoi scoprirlo, ti consiglio di rileggere giallo, in particolar modo la scena del battello, sul fiume. Lì c’è un passaggio in cui si palesa il tempo del romanzo. La questione social, cellulari e altri devices posso dirti che non ne parlerò mai: per me non fanno parte del letterario, sviliscono l’atmosfera, sono a dir poco noiosi, privi di fascino, dozzinali, e siccome è sempre tener bene in mente che la vita è una cosa e la letteratura un’altra (separazione per me imprescindibile), serenamente decido di non farli entrare nei miei romanzi, che mai saranno una copia o un’emulazione della realtà.

Un libro di padri, figli e spiriti guida. Sei d’accordo con questa visione del libro? 

«Aggiungerei anche un libro sul male, il male ereditato, il dolore della ricerca e la dolorosa Ricerca di sé».

Se dovessi definire il tuo romanzo, come lo descriveresti?

«Una Sinfonia Letteraria in quattro movimenti».

Quando ha scritto la parola fine a questo libro gigantesco, che hai pensato, che cosa hai fatto?

«Quando ho terminato l’ultima stesura, dopo sei anni di lavoro, dopo aver messo l’ultimo punto ho pensato che non avrei mai pubblicato questo libro, e quindi mi sono alzato, sono andato in cucina, ho preso due bottiglie di birra dal frigo e sono tornato alla scrivania, per rileggere tutto, dall’inizio alla fine. Ho capito che c’era qualcosa di poderoso, di diverso, di inquietante e forse sconosciuto al nostro panorama editoriale, e così ho pensato che avrei potuto continuare a bere fino al giorno dopo, per la frustrazione di aver lavorato sei anni ininterrotti a un’opera che non avrebbe mai visto la luce. Poi le cose sono andate in modo diverso, ed eccoci qui».

E dopo questo “gigante”, che farai?

«Ho due romanzi già pronti, e un altro a metà. Per adesso leggo, ho tanti libri da studiare e con i quali passare l’estate, in attesa di capire cosa farne dei romanzi già pronti. Posso solo dire che sono opere molto diverse, sia tra loro che da Quando sarai nel vento. La sfida è riuscire a pubblicarli e rimanere lo stesso riconoscibile autore, attraverso la loro diversità».

Dopo averti chiesto quello di Abele voglio sapere qual è il sogno di Gianfranco Di Fiore.

«Da anni ormai ho capito che avere sogni non mi aiuta, non mi piace, preferisco pormi degli obiettivi, pensare alla progettualità che è cosa ben più concreta, e che richiede maggiori sforzi ed energie. Se penso ai sogni dico lo scudetto al Napoli, e un futuro di gioia e di salute per le mie nipotine, Sarah e Gaia».

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