L’affascinante romanzo di Paolo Frusca, “Una casacca di seta blu”, racconta Bela Guttmann, prima gran calciatore ungherese poi leggendario allenatore giramondo. Controverso, esoso, il tecnico attraverso il secolo breve, scampando alla Shoah, lasciando sempre il segno. Si immagina un suo incontro, poco prima della morte, col figlio di un famoso giornalista…
Vada per i memoir, i manuali, le ricostruzioni e rievocazioni storiche, le lunghe interviste. Lo sport sotto forma di libro non è roba per tutti, per chi scrive e per chi lo legge. Scrivere un bel romanzo di sport, e ancor più di calcio, è una sfida immensa. Paolo Frusca – bresciano che vive a Vienna – si è azzardato a scriverne uno, da solo, non a quattro mani come altri suoi libri precedenti, e il risultato è da applausi, con un intreccio affascinante che dapprima ci immerge nella Mitteleuropa e in stagioni leggendarie del football, del Gioco; e poi in figure mitiche, a partire da uno dei tecnici per eccellenza del calcio, Bela Guttmann, del talento Puskas, poi campione immortale, e dall’etereo Sindelar, il Mozart del pallone antinazista, capace di segnare un gol formidabile all’Inghilterra (come dopo di lui seppe fare solo Maradona in Messico) e di ridicolizzare i tedeschi.
Una storia magica
Merita letture attente e giudizi lusinghieri Una casacca di seta blu. Romanzo di un allenatore illusionista (199 pagine, 17,50 euro) di Paolo Frusca, pubblicato dalla casa editrice Mondadori. Un prologo alla Zafon (con un diario inedito da pubblicare e tanto di personaggi che scompaiono improvvisamente e luoghi, poco prima vivi e animati, che improvvisamente appaiono chiusi e abbandonati) fa capire subito di avere a che fare con una storia magica, in cui ci sono l’eco di guerre e tragedie, gioie e vittorie, leggende e verità incontrovertibili. L’ebreo ungherese Bela Guttman, figlio di ballerini, appare ben presto come il protagonista, tarchiato, malmostoso e sarcastico nell’ultimo anno di vita (che per esigenze di “copione” è anticipato dal 1981 al 1978): una figura leggendaria; ha cercato Martin, il figlio di un formidabile immaginario giornalista, Willi Kudlacek («Analizzava la partita, la interpretava, la faceva sdraiare sul divano del professor Freud»), gli vuole affidare uno zibaldone del padre. Si alternando due piani temporali, quello che cronologicamente segue la vita e la carriera di Bela Guttmann, e il resoconto di una lunga giornata che, alla fine degli anni Settanta, Martin trascorre con il leggendario tecnico agli sgoccioli della vita.
Oltre la maledizione c’è di più
Cosmopolita e istrione, controverso e visionario, irascibile e spaccone vero, già da calciatore (stella della squadra ebraica dell’Hakoah Wien che vinse il campionato austriaco del 1925, pioniere del calcio negli Stati Uniti ben prima di Pelé e Beckenbauer, fermato solo dal crollo della Borsa nel 1929) ormai di Bela Guttmann, ci si ricorda a stento come scopritore di Eusebio, come vincitore di due Coppe Campioni consecutive con il Benfica, negli anni Sessanta, e principalmente per la maledizione scagliata contro il club portoghese, dopo non aver ottenuto un premio per il doppio successo europeo consecutivo: «Da qui a cento anni nessuna squadra portoghese sarà due volte campione d’Europa e il Benfica senza di me non vincerà mai una Coppa dei Campioni»; il primo pronostico è stato spezzato dal Porto nel 2004, il secondo resiste e i tifosi del Benfica, che frattanto hanno perso otto tornei europei in finale, temono che duri almeno fino al 2062. Bela Guttmann, che allenò anche alcuni club italiani, è stato naturalmente molto di più, stella del calcio danubiano da centromediano metodista, fautore di una grande nazionale imperiale dell’Austro-Ungheria, mentre i migliori talenti austriaci finirono nella nazionale tedesca dopo l’Anschluss del 1938, tecnico d’avanguardia (e molto esoso) anche in Brasile, dove da allenatore di club ispirò il modulo, il 4-2-4, che avrebbe condotto la Selecao verdeoro ai primi due campionati del mondo vinti.
Girovago, psicologo, ebreo salvato
In pagine pregne di nostalgia per un calcio epico e agli albori, Paolo Frusca delinea l’eleganza e il temperamento di Bela Guttmann calciatore (che indossava casacche di seta – come da titolo – e non di cotonaccio come i compagni), le vittorie e le sconfitte in panchina, l’abilità psicologica e il suo eterno girovagare da ebreo errante, dalla Romania all’Argentina, dall’Ungheria all’Italia (anche al Milan del Gre-No-Li, da cui fu esonerato nonostante un temporaneo primo posto in classifica), dall’Austria al Brasile (dove resta dopo che la rivoluzione anti-sovietica è repressa nel sangue), da Cipro al Portogallo. Quel globetrotter di Bela Guttmann era rinato come allenatore dopo la seconda guerra mondiale e dopo la Shoah, a cui era scampato – unico della sua famiglia – misteriosamente e miracolosamente, forse danzando come in gioventù aveva imparato dai genitori. Frusca gli fa dire, a tal proposito:
Un dio mi ha aiutato. Credo. Quale dio fosse o che nome avesse ora non te lo saprei dire. Di certo non andrò in sinagoga o in qualunque altro tempio a ringraziarlo bruciando incenso, sgozzando capretti, compitando la Torah o accendendogli candele sotto il naso, perché si tratta di una divinità con le idee confuse, molto confuse, sui sommersi e sui salvati.
E sulla condizione di allenatore giramondo, protagonista in tre continenti gli fa osservare:
… per un ebreo è agevole fare l’allenatore di calcio: siamo abituati a convivere con la perenne sensazione di dovercene andare subito, è facile per noi partire senza preavviso e senza motivo, abbiamo sempre una valigia pronta sotto il letto.
Il calcio, la vita
Una casacca di seta blu può aprire un mondo anche a chi non mastica calcio, come lo stesso coprotagonista Martin, figlio del mitico giornalista che, nella finzione, non riesce a incontrare per un’ultima volta, nel 1954 il suo amico Bela Guttmann nella “pancia” dello stadio di san Siro, al termine di un Milan-Torino finito 4-1. Il destino darà un’altra chance al figlio. Tra queste pagine spira il vento di una gioia, quella che può regalare il calcio, e delle tante fratture in cui si può imbattere la vita, cioé la guerra, i passaggi a vuoto, le tristezze, la morte. Un libro che vale la pena scoprire, leggere, conservare e rileggere. Un fiume di storie con affluenti che meriterebbero altre storie, altre magie.
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