Dietro l’apparente semplicità strutturale da romanzo di formazione, “Topeka School” di Ben Lerner racconta ciò che ci circonda, attraverso gli States degli ultimi vent’anni. Il protagonista eccelle nei tornei di “wrestling dialettico” a scuola, retorica che serve solo ad “asfaltare” gli avversari. Eppure emerge anche una speranza, che si possa virare verso la possibilità di un ars retorica matura, usata a fin di bene…
Era bravo nel dibattito, ma era strepitoso nel discorso estemporaneo, il freestyle dei nerd; anzi, era probabilmente – e in tutto il paese i coach e gli altri concorrenti dibattevano su questa probabilità – il miglior oratore estemporaneo della storia del dibattito e dell’oratoria.
Stiamo parlando di Adam Gordon, in un certo modo l’alter ego di Ben Lerner, l’autore di Topeka School (375 pagine, 16 euro) – edito da Sellerio con traduzione di Martina Testa – figlio di due psicologi, la madre Jane è anche una scrittrice femminista, acuta studiosa di Wilfred Bion e autrice di un volume di successo che le scatenerà addosso la rabbia e lo sprezzo della comunità religiosa oltranzista e omofoba del midwest americano (siamo in Kansas, Topeka è la stessa città natale dell’autore), la quale insieme al marito Jonathan, il padre di Adam che mette su a scopo terapeutico un laboratorio cinematografico realizzando bizzarri cortometraggi, è occupata presso una clinica psichiatrica semplicemente chiamata La Fondazione, entrambi esponenti di quella sinistra liberal americana che dalla progressista New York si è trasferita nella pancia profonda e destrorsa della provincia.
È stato detto che la narrativa di Ben Lerner provenga dal futuro, forse ci parla più semplicemente del presente, di quello che abbiamo sotto gli occhi senza che neanche ce ne accorgiamo, quell’acqua di cui parlava David Foster Wallace al quale pure Lerner è stato accostato, ciò che è «così nascosto e in bella vista».
Una prosa di strappi, salti, linee rette e curve
Ben Lerner usa la fiction per parlarci di ciò che ci circonda, con uno spirito da saggista, di colui che scandaglia il corpo della società, pur facendolo con uno strumento artistico, la fiction, meglio dire autofiction in questo caso, in molti hanno parlato di post fiction. Il suo precedente Nel mondo a venire del quale Topeka School può essere considerato il prequel, sempre Sellerio (2014) sospeso tra arte e filosofia, cognitivismo e neuroscienza era una riflessione sui futuri che si affacciano nel presente, e lo cambiano; un elogio dell’arte che accetta di accogliere in sé l’indeterminato, ciò che appunto deve ancora avvenire. I suoi romanzi, questo è il terzo pubblicato da noi dopo il già citato Nel mondo a venire e un Uomo di passaggio (Neri Pozza 2012), sono allo stesso tempo un’interrogazione sulla possibilità e la necessità della letteratura e della poesia, da non dimenticare che Ben Lerner esordisce come poeta e brani poetici dell’amato dall’autore John Ashbery sono spesso inseriti in Topeka School, quasi con una funzione di anticlimax all’interno delle circonvoluzioni della sua prosa fatta di strappi, salti, linee rette, curve, spezzate, miste, nelle quali si rischia di perdersi.
La polifonia e l’afasia
Topeka School al di là dell’apparente semplicità strutturale, in fondo è un romanzo di formazione tradizionale nel quale spicca la figura di Adam, ha un suo incipit, uno svolgimento e un finale, è un’opera con un alto grado di complessità stilistica data dall’utilizzo del flashback, il tentativo in alcuni casi del flusso di coscienza e una scrittura altamente scissa e strappata, con salti temporali che possono apparire stranianti e nel quale il racconto dei personaggi viene fatto tramite l’uso dei correlativi dando vita a un romanzo polifonico: Adam Gordon e la sua psicologia emerge dalla narrazione che ne fanno sua madre e suo padre come allo stesso modo altre figure vengono tratteggiate dagli altrui racconti.
Adam è un vero e proprio asso nei tornei interscolastici di oratoria ove eccelle a dispetto del trauma (primario?), una commozione cerebrale all’età di otto anni che anzi sembra aver amplificato le sue capacità. Nelle scuole americane si tengono delle vere e proprie gare nelle quali in una sorta di incontro di wrestling dialettico basta parlare o scrivere bene per avere la meglio su chiunque, per “asfaltare”. Partendo da un tema di pubblico interesse il concorrente deve mostrare la sua abilità oratoria. L’effetto è disturbante: mille parole come se fossero sparate da una mitragliatrice in un continuum del discorso nel quale conta solo la tecnica del quale l’oratore è in possesso. Valido in tal senso l’inciso che paragona questo tipo di performance a Eminem «che in un solo passaggio di 15 secondi, Slim Shady sputa ben 97 parole, ossia 6,46 parole al secondo». Lo spunto può essere un discorso da imbastire a proposito dell’unificazione delle Coree o sull’opportunità o meno del Messico di far parte dei trattati sul libero commercio, oppure sulle modalità di finanziamento del sistema sanitario pubblico o sulla praticabilità della soluzione del conflitto arabo-palestinese. Non è tanto il contenuto del tema trattato quello che conta in questi campionati di retorica, quanto la capacità di “asfaltare” a scopi agonistici come nelle gare di freestyle l’avversario, queste tendenze del sistema educativo che mutuate dal dibattito politico che le hanno erte a totem ci mostrano a livello pubblico il corpo martoriato della società nella quale viviamo e delle relazioni che vi si sono instaurate, microcosmo e macrocosmo insomma, salvo scoprire come Ben Lerner ci mostra che tali abilità possono convivere nello stesso soggetto con l’incapacità di recitare una sola filastrocca, simbolo stesso dell’afasia nella quale l’ipertrofia linguistica e la bolla del virtuale, dei tweetstorm e dei social ci ha collocato.
Il gorgo della glossolalia
Il sottotesto di Topeka School assomiglia a un manuale di programmazione neurolinguistica, allo scopo dell’ “asfaltare”, il marketing neuronale entrato a far parte del discorso pubblico e privato, le parole come «forme di trasparenza pensate apposta per nascondere» perché «le verità profonde sono sedimentate nella sintassi, i termini si possono ribaltare, proprio come non c’è nessun principio di non contraddizione, nessuna legge del terzo escluso, a governare l’inconscio» (pag 85). Le capacità nella comunicazione di persuasione sembrano le nuove e uniche divinità. La glossolalia, intesa come flusso verbale incontrollato, come flow discorsivo sganciato da ogni riferimento al reale, è il gorgo verso il quale converge esplicitamente la riflessione sul linguaggio condotta nel romanzo, facendone uno strano oggetto ibrido che in fondo ci parla di una più o meno comune famiglia americana nel corso di poco più di vent’anni.
L’America, adolescenza senza fine
Il romanzo di Ben Lerner è infatti ambientato nel 1997, in piena epoca clintoniana e si dipana fino al più volgare e arrogante trumpismo dei giorni nostri; un romanzo che sposa alcuni dei più consolidati cliché delle narrazioni borghesi nordamericane, con coppie che si tradiscono, con l’educazione sentimentale degli adolescenti bianchi americani della classe media, con il più o meno classico elemento disturbante che assume in questo caso le fattezze di Darren, l’amico di Adam disturbato psicologicamente e bullizzato regolarmente dai compagni e verso il quale Adam stesso cerca di venire in soccorso, con esiti disastrosi. Ma Topeka School è anche e soprattutto una metariflessione sul linguaggio, sulla sua deriva performativa e sulla storia di un fallimento culturale, il fallimento della possibilità dell’utopia di una comunicazione autentica e quindi è anche un interrogarsi sul ruolo della letteratura. Il capitolo finale dall’iconico titolo e nel quale il salto temporale è ancora più dirompente, portandoci nella vita adulta di Adam, da Zuccotti Park a una manifestazione di protesta dove porta i figli, siamo all’oggi, in piena epoca di trumpismo dilagante, sembra lasciar intravedere una possibile transizione verso un’epoca di maturità del linguaggio e delle relazioni, la possibilità di un ars retorica usata a fin di bene. È una costante nel romanzo di Ben Lerner l’espressione «L’America è un adolescenza senza fine»; ma Ben Lerner sembra voler dire che tale deriva del linguaggio ha in sé il proprio antidoto; d’altronde è un romanziere oltre che poeta e il grande caos logico che è Topeka School riesce farci vedere il corpo più o meno martoriato della nostre prassi comunicative e delle nostre relazioni, ancora parafrasando David Foster Wallace quello che è «così nascosto e in bella vista».
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