Esther Safran Foer, dopo il male guardare al domani

Esther Safran Foer, madre dello scrittore Jonathan, ha scritto un memoir, “Voglio sappiate che ci siamo ancora”: la storia di un viaggio alla ricerca delle radici e della costruzione di un albero genealogico, a partire da Ethel Bronstein e Louis Safran, i suoi genitori, unici sopravvissuti delle rispettive famiglie alla furia nazista, poi emigrati negli Usa. Un libro sulla Shoah che si rivolge al passato ma anche al futuro, dimostrazione che l’identità ebraica è vivissima

Esther Safran Foer riempie i buchi di realtà che c’erano nella fantasia del fantastico primo romanzo del figlio Jonathan, Ogni cosa è illuminata, pubblicato da Guanda, come il memoir della madre. Sono stati necessari un viaggio lunghissimo, un decennio, scambi epistolari e un tuffo nel dolore indicibile degli avi – sterminati dai nazisti – per permettere a Esther Safran Foer di scrivere del padre, della madre, della sorella (nata da un precedente matrimonio del padre) di cui a lungo ha sconosciuto l’esistenza. È nato così un volume (tradotto da Elisa Banfi) fin dal titolo, Voglio sappiate che ci siamo ancora (285 pagine, 18 euro), dedicato agli antenati scomparsi, di cui non è rimasta nemmeno la polvere, ma che vivono e rivivono oltre che nei pensieri dell’autrice in un libro emozionante e vero, che dimostra come l’identità ebraica non sia smarrita, ma viva, vivissima.

Domande intime e collettive

Da Washington agli shtetl, i villaggi ebraici della prima metà del ’900, di cui esistono ruderi e rovine nell’attuale Ucraina (Polonia orientale ai tempi dei fatti), tra nomi dei luoghi e confini modificati. Questo il percorso, sulle tracce di quello fatto da Jonathan Safran Foer, compiuto dalla madre, a caccia di foto, indizi, voci che le spiegassero i misteri della propria vita, quelli dei genitori (il padre suicida in America, quando lei aveva otto anni, dopo essere scampato al peggio, un’esecuzione di massa; la madre, morta mentre Esther Safran Foer scriveva, che sempre interrompeva qualche racconto di guerra, intimando: «Basta così»), di parenti vicini e lontani; ha trovato anche qualche erede dei sopravvissuti, rifugiati in vari continenti, dal Brasile a Israele. E qualche risposta alle sue domande, intime e collettive, illuminando ombre e punti oscuri.

L’albero e le sue radici

Abituata a catalogare tutti i pezzi della propria vita, Eshter Safran Foer ha ricostruito un albero genealogico e le sue radici, a partire da Ethel Bronstein e Louis Safran, i suoi genitori, unici sopravvissuti delle rispettive famiglie durante la Shoah, emigrati negli Stati Uniti dopo una permanenza di un paio d’anni in un campo profughi tedesco. Pur con le tare della fantasia il successo internazionale di Ogni cosa è illuminata, anche nella versione cinematografica, ha riacceso i riflettori su un villaggio che non esiste più, Trochenbrod. Tra apprezzamenti e critiche, precisazioni e proteste – perché non era stata raccontata la vera storia di quello shtetl, ma ne era venuta fuori una trasfigurazione letteraria – la madre di Jonathan Safran Foer ha iniziato a pensare alla possibilità di riempire quasi tutti i silenzi, di trovare pace. Voglio sappiate che ci siamo ancora fruga in storie di guerre terribili e strazianti, in cui si intrecciano atti di generosità e di nessuna pietà, massacri e svolte fortuite, come quella che evitò la fucilazione al padre dell’autrice.

Ricerca concreta e interiore

Ricerca concreta e ricerca interiore si amalgamano. Esther Safran Foer ingaggia detective ed ex agenti segreti, indaga in prima persona nei dati disponibili in Rete, a cominciare da quelli Yad Vashem di Gerusalemme. E ricostruisce memorie, pezzo dopo pezzo, vite rocambolesche, anche di parenti perduti, schegge di coraggio, pace e giustizia contro l’orrore insopprimibile, da restituire prima di tutto ai figli e ai nipoti: nei pressi delle fosse comuni e dei monumenti alla memoria degli eccidi compiuti dai nazisti, Esther Safran Foer, accompagnata dal figlio Frank, ha lasciato foto della sua famiglia, con i figli, i nipoti, le nuore. Per rivivere il passato, ma anche per guardare al domani.

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