7 domande a Sandro Campani, autore de “I passi nel bosco”: “Vedere i miei personaggi accettare i colpi della vita, anche adattarsi alla rovina, mi commuove, mi insegna qualcosa. Ho sempre il timore di non saper cogliere il tempo presente, mentre lavoro a una eternizzazione del passato, spostandolo in un tempo mitico. I modelli bisogna sceglierseli inarrivabili, se no non c’è gusto”
Sandro Campani percorre sentieri antichi con delicatezza. Lo aveva dimostrato con Il giro del miele, sua opera edita per Einaudi, e lo ribadisce anche con I passi del bosco, nuovo romanzo pubblicato dalla casa editrice torinese. I motivi del più recente romanzo, le letture che lo hanno sorretto, il rapporto col territorio, che è insito nell’opera di Campani (qui i suoi consigli di lettura in un video del nostro canale YouTube), sono al centro di questa intervista.
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Sandro Campani, iniziamo dal titolo: I passi nel bosco, come a volere personificare il bosco stesso. Raccontaci come nasce e cosa simboleggia per te il bosco.
«Il bosco è a tutti gli effetti un personaggio; questo fa parte del mio modo di guardare, sono abituato a trattare il paesaggio con la stessa attenzione che riservo ai personaggi. Ciascuno dei narratori che si avvicendano nel testo ha un suo modo di rapportarsi al bosco, e questo modo ci dice qualcosa in merito al carattere del narratore stesso.
Il bosco per me è quel posto in cui fin da piccolo son stato abituato ad andare da solo, a orientarmi, principalmente perché la nostra è una famiglia di fungai, anche se per me andare a funghi è rimasto purtroppo un divertimento occasionale, mentre mio fratello di mezzo ne ha fatto un lavoro; ho avuto fin da subito un doppio rapporto col bosco: oltre a quello pratico, (andando a funghi: non certo per fare il taglialegna, attività che invece svolge il mio fratello più piccolo) anche un rapporto estetico: ero un bambino contemplativo, ecco. Nel bosco sei al cospetto del mistero; qualcosa che sta lì da prima di noi e resterà dopo di noi. Se volessi dirla con le parole che ha usato Emilio Rentocchini parlando del Giro del miele, ma valgono anche qui: nel bosco c’è la lince, la lince è Dio, la luce nel bosco è Dio; tu ti aggiri per il bosco cercando di guardarlo per la prima volta, con l’ossessione di dare un nome alle cose.
L’altra parte del titolo, I passi, ha sia una funzione spaziale (perché i passi sono un moto da un punto a un altro) che una funzione temporale (perché dicono di qualcuno che si sta muovendo, si è mosso, o si muoverà); e in più i passi – lo dice Luisa già nell’incipit – sono un segno da cui si può riconoscere la presenza, il passaggio di qualcuno nonostante la sua assenza, grazie alle impronte, ad esempio, o al rumore. Attorno all’assenza di Luchino è costruita l’intera storia».
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Il tuo è un romanzo corale, un romanzo in cui cerchi di valorizzare tutta una giostra di sentimenti comuni, con una certa predilezione per gli sconfitti, per chi non ce l’ha fatta, per chi rimane ai margini, un approccio molto verghiano, se vogliamo. Perché quest’attrazione, in termini letterari?
«È vero, è una cosa che posso riscontrare in tutto quello che ho scritto fino adesso. Mi commuove e mi tocca un certo tipo di cose, in merito alla vita della gente, il modo in cui la vita colpisce senza guardare in faccia, e non si comporta secondo un sistema di punizioni o ricompense – sarebbe comodo, e giusto, se la vita desse e togliesse a ciascuno di noi secondo la nostra indole, i nostri meriti o le nostre colpe, mentre invece la vita si abbatte in maniera crudele, a volte, su chi forse non se lo meritava. Vedere i miei personaggi combattere, subire, più che altro accettare questi colpi, anche adattarsi alla rovina, mi commuove, mi insegna qualcosa, sia come persona che scrive che come persona in senso lato».
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Uno dei temi a cui sei più affezionato è quello del ritorno, presente anche nel tuo precedente romanzo, Il giro del miele. In questo caso il ritorno è quello dell’inaffidabile Luchino, uno dei personaggi più riusciti, a mio avviso, del romanzo, quello che incarna meglio questa vocazione da vagabondo.
«Valentina Durante ha appena citato E. M. Forster presentando il libro. Forster ha detto che tutte le trame della narrativa si possono in sostanza ridurre a due: un personaggio parte per un viaggio, un personaggio ritorna da un viaggio; nella figura di Luchino, osservava la Durante, si riuniscono entrambe le funzioni. Luchino è imprendibile proprio perché fluttua in un’aria che è spostata rispetto a quella che respirano gli altri; è al contempo dentro e fuori. Se vogliamo possiamo guardarlo anche attraverso un tema classico del western: lo straniero che arriva in città, che spesso è qualcuno che se ne andò e ritorna, e attraverso l’arrivo destabilizzante di questo intruso si mette in luce il carattere di una comunità intera. Luchino in fondo fa un po’ questo».
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Osservando la vicenda da un’altra angolazione, potremmo dire che I passi del bosco è un romanzo sulle radici. I tuoi personaggi sono molto legati al territorio: qual è il tuo rapporto con l’appennino tosco-emiliano, con la gente del posto in cui sei cresciuto, le tradizioni, i luoghi di ritrovo, i personaggi che popolano la piazza o il bar del paese?
«L’essere al contempo dentro e fuori di Luchino mi aiuta a rispondere anche a questa domanda, perché è esattamente come mi sento io riguardo ai miei posti, al paese in cui sono cresciuto, alla natura che lo occupa e alle persone che lo abitano. Mi sento dentro e al contempo fuori. Torno alla questione dello sguardo estetico sulle cose – lo dico spesso, perché lo sento come un motore importante di quel che faccio: se fossi totalmente coincidente con le mie radici non mi sarei accorto di volerne scrivere. Lo vivrei, e basta. È proprio nel momento in cui cresce questo distacco estetico, a causa del quale guardi le tue stesse cose dal di fuori, mettendo in crisi la tua appartenenza, che cominci a sentire la mancanza pur nella presenza, e quindi un disagio che diventa l’innesco del tuo scrivere: il tuo scrivere non è altro che il tentativo, destinato al fallimento, di ridurre questa distanza dalle cose da cui sei irrimediabilmente separato e invece avresti voluto vivere appieno; perciò ti poni al loro cospetto con un atteggiamento di rispetto profondo, come se le guardassi per la prima volta, ignorante totale, e allo stesso tempo come se tentassi di racchiuderne e descriverne l’essenza, onorandole nel modo più completo possibile. Insomma, il paradosso è che scrivere significa, da una posizione di distacco e di disagio, tentare di avvicinarsi il più possibile a un’appartenenza e a una coincidenza con il mondo che avresti soltanto non scrivendone, e quindi è un tentativo destinato al fallimento».
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Come è cambiata la provincia, e i giovani che vivono in provincia, negli ultimi decenni, diciamo rispetto agli anni ’80, prima dell’avvento della globalizzazione?
«Quando scrivo, lavoro con uno scarto rispetto al presente: le cose si assimilano attraverso il filtro del tempo che è passato, e quando si è fortunati si riesce in qualche maniera non a mitizzarle, ma a rivestirle di un significato universale, riassunto; facendo sempre i conti con la trappola della nostalgia. Il rischio che il rimpianto per la propria infanzia, che ognuno di noi vede come unica, perché vissuta dall’interno, ci impedisca di guardare e riconoscere il resto.
Perciò ho sempre il timore di non saper cogliere il tempo presente, mentre lavoro a una eternizzazione del tempo passato, spostandolo in un tempo mitico, che è quello che tento scrivendo.
Di sicuro si sono accorciate le distanze. Sia fisicamente – perché la viabilità è “migliorata” e la lontananza fisica dalla città che c’era quand’ero piccolo è diminuita – sia, ovviamente, con l’arrivo di internet. Mi sembra che adesso ci si somigli di più tutti quanti, e lo scarto fra un ragazzino che viene giù dalla montagna e un ragazzino di città, entrambi provinciali, ma con punti di rincorsa diversi rispetto a un ipotetico centro, sia molto ridotto rispetto agli anni ottanta. Siamo tutti provinciali allo stesso modo; stessi vestiti, stesse pettinature, stesse droghe, stessi gusti, per quelli di “giù” e quelli di “su”. Quelli che restano: la collina e la montagna appenninica vivono un costante processo di spopolamento. Se mio fratello più piccolo vuole giocare a calcetto d’inverno, in un campo dismesso da cui mancano le porte, deve fare un mucchio di telefonate per trovare in tutto il comune i compagni sufficienti a giocare in due contro due; ecco, forse continua a esserci un rapporto lo spazio molto diverso, per chi resta “su”: ti abitui alla lentezza, alla rarefazione, e ti adatti al poco. Quello che è cambiato, stando a ciò che mi dicono alcuni amici che hanno figli, è che noi passavamo intere giornate nei boschi, nei campi, al torrente, mentre i nostri genitori erano serenamente all’oscuro di dove fossimo: si fidavano, ci lasciavano andare. Adesso questa cosa del controllo, della localizzazione, del “dimmi sempre dove sei”, del “ti accompagno a scuola in macchina fin su per le scale e parcheggio al secondo piano davanti alla tua aula”, è molto presente anche in montagna, per i pochi bambini che ci sono; non so se è l’ossessione della sicurezza con cui ci hanno bersagliato in queste decine d’anni, ma mi chiedo se ci sono ancora dei bambini che tornano a casa a piedi per le scorciatoie in mezzo al bosco, mettendoci quaranta minuti a piedi, come facevo io. Spero per loro di sì».
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A cosa stai lavorando adesso, ha già un nuovo romanzo in cantiere?
«Sto prendendo appunti da un annetto. Ho un’idea, con alcune cose chiare e altre meno. Ho tre luoghi e tre personaggi, sulla vicenda ho ancora tante cose da scoprire. Stante il mio immaginario, e i posti in cui ambiento le cose che scrivo, quello che mi sembra di avere capito è che dovrebbe rivelarsi una storia più dritta, più compatta, in cui per una volta provo a lavorare sulla domanda “Cosa sta per succedere?”, invece che sulla domanda “Come è successo quello che è successo?”.
Imitare le voci è una cosa che mi riesce bene e mi fa sentire sicuro, ma non so, dopo un romanzo in cui ci sono sei voci narranti e alcune di queste ne contengono altre ancora, credo di aver portato, per quanto mi riguarda nel mio piccolo, quel tipo di esplorazione al limite: mi ripeterei in maniera insipida, se tentassi di proseguire sulla stessa strada; sarebbe come aver tenuto per aria sei arance e continuare a giocarci buttando su anche due birilli e due candele: a un certo punto, diventerebbe noioso. Invece mi piacerebbe provarmi in qualcosa che mi sfida e mi fa crescere in cose su cui mi sento più debole».
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Quali autori o libri ti hanno ispirato nella stesura di questa storia così intima, eppure coinvolgente e profonda? Proviamo a suggerire un percorso di lettura a chi ci legge.
«Il modo in cui è costruito I passi nel bosco, per accumulo di relazioni fra narratori anche inaffidabili attorno a eventi raccontati da diversi punti di vista, figlio della fissa che ho avuto fin da piccolo per Faulkner, in special modo per L’urlo e il furore e Mentre morivo; è una cosa talmente smaccata che sarebbe disonesto non citarlo, anche se mi rendo conto che citare un nome così gigantesco suona ridicolo. Facciamo le debite microscopiche proporzioni, ma bisogna dire che il modello era quello. D’altronde i modelli bisogna sceglierseli inarrivabili, se no non c’è gusto. Se un giorno ti viene il ghiribizzo di saltare con l’asta, bisogna che sia Bubka il tuo modello, poi lo sai che non ci arriverai mai e sarai destinato al fallimento, ma nel tentativo cresci.
Sempre a proposito di narratori inaffidabili, un libro che finora ho letto una volta sola ma mi lavora in testa è La versione di Barney di Mordecai Richler.
Poi c’è quello che, come ho detto altre volte, è il libro della mia vita e mi accompagna fin da quando ero piccolo, e credo contenga quasi tutto il mondo di cui ho bisogno per raccontare, cioè Al dio sconosciuto di Steinbeck. Il rapporto che Antonello ha con la quercia, anche se viene da querce reali esistite nella mia vita – una è stata tagliata, l’altra è fuori della mia finestra – riecheggia quello che il protagonista di quel libro ha con la quercia che lui venera. Al dio sconosciuto e L’inverno del nostro scontento sono i due libri di Steinbeck a cui torno più spesso, e accompagnano il mio immaginario, allo stesso modo in cui lo fa Twin Peaks di David Lynch.
Già che parliamo di film, per la costruzione di Francesco – non del personaggio, ma del ritmo e della scansione per episodi del suo vagare alla ricerca del figlio – mi sono riguardato per l’ennesima volta uno dei miei preferiti in assoluto, che è Un gelido inverno di Debra Granik (cito il film, perché il libro, di Daniel Woodrell, mi è sembrato molto più debole). È una ricerca disperata il cui procedere per tappe è identico a quello di Una questione privata di Fenoglio – e chissà che non sia un caso: in esergo al suo libro Woodrell mise una frase di Pavese…
Lo so, ho citato soprattutto dei classiconi del Novecento, cosa ci posso fare? Un libro uscito da poco che ho letto e riletto, amato, sottolineato tantissimo mentre scrivevo il mio è Ipotesi di una sconfitta di Giorgio Falco. Avere un briciolo di quell’occhio, di quella profondità di intuizione, di quella presa sulla realtà (anche sociale), di quello splendore di lingua! Ecco, per vedere se nel descrivere una sfumatura di espressione, un gesto rivelatore, sono davvero efficace e antiretorico, basta che mi confronti con le pagine di Giorgio Falco».