La precoce saggezza di una bambina, Sofia, che dialoga con la nonna ne “Il libro dell’estate” di Tove Jansson, suo primo libro per adulti. Con una scrittura poetica e limpida e una natura imperturbabile e incorrotta sullo sfondo, che non nasconde la minaccia dell’irrompere della civiltà
Una casa sull’estremo promontorio di un’isola oltre la quale si estende il mare di Finlandia, dietro la casa il cosiddetto bosco fantasma con i cui alberi la nonna, coprotagonista de Il libro dell’estate (172 pagine, 15 euro), si diverte a intagliare strani animali e costruire barchette. In questo paesaggio rarefatto del grande nord che ricorda tanti film di Bergman il dialogo fra una nonna e la nipote durante il corso di un un’estate, fra sporadiche visite di più o meno misteriosi personaggi, barche di briganti che si avvicinano e scompaiono e altre varie e minime avventure.
Tove Jansson (1914-2001), finlandese di minoranza linguistica svedese, vero e proprio monumento nazionale in patria, tanto che le celebrazioni in occasione del suo ottantesimo compleanno durarono un anno intero ci regala con questo romanzo del 1972, pubblicato per la prima volta da noi nel 1989 sempre da Iperborea, il suo primo scritto per adulti, infatti la Jansson deve la sua notorietà alla fortunata serie dei Mumin, una bizzarra famiglia di troll finlandesi che l’ha fatta conoscere dai bambini di mezzo mondo.
Tra la fiaba e il realistico
Il mondo dell’infanzia non è estraneo a Il libro dell’estate riproposto quest’anno nella sua quattordicesima edizione dalla casa editrice milanese con una nuova e sempre affascinante copertina. È la nipote Sofia infatti la vera forza propulsiva di questo romanzo composto da ventidue capitoli, quadretti sempre in bilico fra la fiaba e il realistico nei quali la spensieratezza e spontaneità tipica di una bambina convive con l’irrequietezza e la precoce saggezza di un’età a metà strada fra la fanciullezza e l’età adulta, quell’ansia del domandare e del cercare: «Tutto si può trovare se si cerca e se ne ha il tempo, ovvero se si ha la possibilità di cercare; e mentre si cerca si è liberi e si trovano cose che non ci si aspettava affatto di trovare» dice Sofia, che è un po’ il costante anelito alla libertà e all’indipendenza, quella «necessità del singolo di imparare a fronteggiare da solo il mondo esterno, fuori dalla fortezza sicura dei legami familiari e a superare le difficoltà con le proprie forze», come osserva nella postfazione Carmen Giorgetti Cima, traduttrice di questa e altre opere della Jansson, oltre a quelle di molti altri autori scandinavi.
Ecco che Sofia con l’innocenza di una bambina arriva a domandare alla nonna come faccia Dio ad ascoltare tutti quelli che pregano contemporaneamente, ma anche a questioni più dirimenti, quelle di una bambina che già scalpita per entrare nel mondo dei grandi con le sue domande più impegnative rivolte alla stessa nonna e che la portano a riconoscere: «Che cosa strana è l’amore, più si ama l’altro e meno l’altro ti ama», «e allora che si può fare?» chiede la nonna. «Si continua ad amare, si ama sempre peggio» risponde la bambina.
L’inversione dei ruoli
È tipica e significativa questa inversione dei ruoli fra i due personaggi, un po’ cercata, un po’ spontanea perché in fondo non si diventa mai adulti del tutto e allo stesso modo non si rimane e non si può rimanere mai del tutto bambini, ecco che il romanzo della Jansson incontra tutte le generazioni. Così ad esempio la nonna fa barchette di corteccia ed è Sofia, la saggia, il nome non è scelto a caso, a dettare alla nonna un suo particolare trattato di botanica. Le due protagoniste cantano canzoni, passeggiano, si cimentano in piccole grandi avventure in questa estate del nord: un bagno nell’acqua alta e fredda; Sofia che va a dormire nella tenda, il tutto sotto lo sguardo vigile ma defilato e la presenza-assenza del padre della bambina, il vedovo protagonista secondario del romanzo (si scoprirà dalle prime pagine che la madre di Sofia è morta). I dialoghi fra le due protagoniste hanno come sfondo una natura imparziale, imperturbabile, limpida e incorrotta, la cui discreta e imponente presenza non nasconde la minaccia dell’irrompere della civiltà con il buldozzer che abbatte gli alberi per costruire una strada che arriva fino al promontorio e la villa costruita sull’isola vicina che oscura l’orizzonte o lo scatenarsi di una tempesta che nell’affabulazione le due protagoniste ritengono di aver evocato.
Quasi una consapevolezza leopardiana
L’elemento fiabesco, la suggestione di una cartolina ricevuta da Venezia può aprire un dialogo immaginario della bambina con la mamma scomparsa, insieme a un’osservazione entomologica della natura sono sicuramente gli aspetti più affascinanti del romanzo della Jansson: «Se ora ci immaginiamo un verme che ha paura, esso si contrae» osserva Sofia la quale con la sua precoce saggezza arriva a illuminanti metafore stimolate dalla vista di ciò che la circonda: «I pesci piccoli muoiono più lentamente di quelli grossi e tuttavia la gente si preoccupa molto meno di loro».
Il succedersi progressivo degli episodi ci porta all’arrivo del mese di agosto, il picco dell’estate, eppure tinteggiato in chiaroscuro con un sentore già di sottile malinconia per la bella stagione che sta per finire: «È ancora estate ma l’estate non c’è più, si è fermata senza avvizzire e l’autunno non è ancora pronto a venire», quasi una consapevolezza leopardiana da La Sera al dì di festa sulla caducità di tutte le cose. Intorno alla casa si apprestano i preparativi per la lunga stagione invernale che arriverà e intanto il paesaggio inizia a mutare. Tove Jansson descrive questi mutamenti delle cose e della natura come se fossero gli stessi che avvengono nell’animo delle protagoniste, con una scrittura precisa, cristallina e poetica, limpida come l’aria del nord che è quasi un sentimento al quale meritoriamente da anni Iperborea riesce a dar voce con il suo bellissimo catalogo.
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