Per Vladimir Solovev – filosofo, critico, scrittore, poeta, teologo – la carne e lo spirito procedevano insieme diventando l’una epifania dell’altro. Imparare ogni cosa, conoscere quanto più possibile il mondo che lo circondava, era per lui una divina chiamata a migliorare questo mondo e renderlo… bello. Nessuno come lui aveva letto nell’uomo moderno, così bene, i tratti delle sue virtù e le possibilità delle sue voragini
Immaginate per un attimo Dostoevskij come se fosse un’infezione, un batterio insistente e incessante che, entrato in un corpo (sociale e culturale), riesce ad incubare per anni, moltiplicandosi a dismisura (attraverso romanzi e racconti).
Bene. Immaginate ora, vediamo… Sì! Immaginate, qualche anno dopo, un Bulgakov come malattia conclamata di quell’infezione, esplosa proprio quando quello stesso corpo è ormai ridotto alla più irrimediabile immunodeficienza. Ok. Cosa ci sta nel mezzo? Cosa potrebbe trovarsi tra l’infezione e la malattia? Cosa – o meglio “chi” – ha permesso al Grande Batterio di moltiplicarsi e trasformarsi in un inarrestabile contagio che oggi stimiamo come uno dei più grandi patrimoni della letteratura mondiale?
La risposta potrebbe essere nel personaggio che, attraverso questo articolo, cerchiamo di presentare ad un pubblico decisamente più vasto di quella cerchia ristretta di intellettuali che, bazzicando tra un autore e l’altro del mondo russo, ad un certo punto sono costretti a fare i conti con lui: Vladimir Solovev.
Interprete di un mondo
Il primo compromesso è la traslitterazione di un nome che, se dovesse essere riportato in modo esatto, avrebbe quasi più segni diacritici che consonanti. Ed è già una specie di indizio. Solovev è soprattutto un insieme di segni che, interponendosi con intelligente destrezza tra spirito e cultura, ci ha dato la possibilità di leggere al meglio (e cioè con una maggiore capacità di contestualizzazione) pagine che non sono solo romanzi o amene letture ma che, al contrario, sarebbe meglio definire documenti di un intero popolo, della sua storia, della sua crescita e maturazione.
Solovev, grazie alla sua geniale opera teoretica e divulgativa, poetica e speculativa, è il grande interprete di un mondo che è stato portato dal piano della pagina alla tridimensionalità del reale.
Parliamo di un uomo (filosofo, critico, scrittore, poeta, teologo) la cui strutturazione intellettuale è visibile e spiegabile solo se la si guarda in sinossi con la sua crescita spirituale. A differenza di altri grandi autori, che sono partiti dalla fede per poi arrivare al mondo, o che hanno percorso il cammino esattamente inverso, in Solovev le due dimensioni (quella materiale e quella trascendente) hanno occupato fin dai primi anni il medesimo spazio, crescendo l’una accanto all’altra come la carne e lo spirito.
Questo si deve certamente ad un primo imprinting sociale, già di per sé abbastanza rivelatore di quella che, per lui, sarebbe diventata l’espressione massima della realtà: l’emancipazione dell’intelletto come strumento politico e religioso, come dovere morale.
Nato dalla terra per elevarsi al cielo
Solovev fu il primo, nella sua famiglia, a godere delle “due nature” dell’uomo russo moderno: proletario per nascita, intellettuale per scelta e naturalmente anche per vocazione. Nato dalla terra per elevarsi al cielo. Dovremmo dunque immaginare un piccolo Vladimir (chiamato in casa: Volodja o Vovka) che, già nei primi anni della sua vita, e con quella sua cristallina curiosità, osservava e imparava da un padre che era nato contadino ed era poi divenuto accademico. Nella Mosca di quegli anni, un simile salto genetico significava una sorta di redenzione. Anche perché i russi, eccessivi per quanto si voglia, godono di una certa indubitabile meritocrazia. Per cui, sebbene tra i corridoi dell’università non mancassero i chiacchiericci rivolti a quel nuovo rettore con le mani ancora sporche di terra, nessuno osava mettere in discussione i meriti attraverso i quali era giunto a quel grado così alto dell’élite culturale. Solovev osservava tutto ciò: guardando suo padre capiva che era possibile, all’uomo, operare un’evoluzione dello spirito e superare se stessi oltre i confini di un perimetro sociale violentemente ereditato da secoli di povertà e relegazione di classe; al contempo, però, contemplava in lui anche la nobile virtù di chi, pur assunto alle sfere celesti delle cattedre e degli atenei, non ricusava le proprie origini ed anzi, come il mitico Anteo, per riacquisire forza e vigore ritornava volentieri alla terra senza mai far sì che la cultura diventasse salotto e pettegolezzo. Similmente, il piccolo Vovka ascoltava i discorsi progressisti e moderni del papà professore e storico, e contemporaneamente si stupiva di come questi – nonostante le sue idee – rimanesse profondamente ancorato ai valori cristiani della più tradizionale ortodossia russa.
Insomma, per Solovev (che all’età di dodici anni era già sistematicamente in contatto epistolare con noti pensatori ed intellettuali russi) l’apparente contraddizione delle idee e l’adeguamento della ragione alla forma della materia storica erano già quel pane quotidiano che egli, presto, avrebbe spezzettato nelle sue realizzazioni letterarie e filosofiche.
La lente della bellezza
Ricordate quanto detto prima a proposito del passaggio tra l’infezione e il contagio? Ebbene. Dostoevskij scrisse un giorno un lungo racconto che s’intitolava: La padrona. In esso si raccontava di un uomo che, dopo aver visto in chiesa una donna bellissima, se ne innamorava in un istante e, da quel momento in poi, faceva di tutto per incontrarla e rivelarle i propri sentimenti. Noi, leggendo qualcosa del genere, penseremmo ai soliti voli pindarici del famoso Scrittore, che non indugiava certo in mezze misure e, al contrario, accelerava sempre su certi elementi emotivi con il rischio di farli sembrare iperbolici, inverosimili. Ecco. Solovev, invece, ci dimostrò che una simile trama era possibile. E non perché l’avesse scritto in qualcuna delle sue lunghe disamine critiche, ma perché lo sperimentò personalmente. Ciò che per Dostoevskij era stato un racconto, per Solovev diveniva realtà. E ciò accadeva quando aveva solo otto anni, e nelle medesime condizioni: un bimbo in chiesa, che partecipava al culto insieme alla famiglia e che, vedendo a qualche metro da sé una fanciulla bellissima, non solo se ne innamorava perdutamente ma coglieva, in quella bellezza, la più prossima forma del Dio che – in quel culto – egli stava celebrando. Per Solovev la carne e lo spirito, si è già detto, procedevano insieme diventando l’una epifania dell’altro.
Questo atteggiamento, proteso alla trasfigurazione della realtà attraverso precise griglie simboliche entro cui avrebbe passato a setaccio ogni elemento del mondo, divenne ben presto più che un’inclinazione; egli ne fece il metro della sua indagine. Questa Bellezza (la stessa che per Dostoevskij avrebbe salvato il mondo) divenne per Solovev la lente del suo microscopio speculativo.
Vocazione al sapere
Trascorse la sua adolescenza e la sua prima maturità giovanile in un’assoluta e vorace assimilazione di tutto quanto potesse rappresentare per lui un serio strumento di conoscenza: letteratura, arte, scienza, e poi gli studi appassionati e incessanti delle discipline teologiche! Non si contano i corsi e gli indirizzi di studio ai quali si iscrisse e che frequentò. E naturalmente una continua lettura di testi letterari e filosofici, russi e non solo, ed uno studio sostenutissimo e senza requie, che lo trasformò presto nel più orientale e cagionevole alter ego del nostro Giacomo. E il tutto perché? Sembrerebbe per il solo gusto di “sapere”. Non solo, o non nella sola accezione cumulativa. Dagli idealisti tedeschi (Fichte in particolare) Solovev comprese la portata “missionaria” della vocazione al sapere e alla conoscenza, allo studio e all’intelletto. Imparare ogni cosa, conoscere quanto più possibile il mondo che lo circondava, era per lui una divina chiamata a migliorare questo mondo e renderlo… bello.
Nella spasmodica ricerca di quel Vero che per lui corrispondeva al Bello e al Buono, fu così zelante che lo slancio descrittivo della sua sintesi mosse presto il passo ad una lunghezza ben superiore alla gamba del più comune equilibrio espressivo. In altre parole, nessuno era in grado di arginare le conquiste del suo intelletto che, divenuto parola, partoriva sentenze talmente forti e decisive da mettergli contro, quasi contemporaneamente, sia la nobiltà imperiale che il clero ortodosso. Forme diverse ma complementari di aristocrazia ben piantata sul terriccio del proprio status quo, che non potevano minimamente pensare che evolversi (come società e come popolo credente) dovesse necessariamente significare “cambiamento”.
Quasi un eremita, quasi un monaco
Nel frattempo, il giovane pensatore cresceva in età, grazia e sapienza. Separandosi un po’ per volta dal mondo. Non perché lo rifiutasse, ma perché intendeva amarlo e comprenderlo in modo più distaccato, senza il rischio di lasciarsene afferrare. Divenne quasi un eremita e molte delle sue scelte di vita furono praticamente identiche a quelle di un monaco: rimase celibe, divenne vegetariano, scelse di sposare la povertà e l’indigenza, e consacrò la sua più prolifica produzione soprattutto a vantaggio dei poveri, dei derelitti, e dei diseredati per i quali egli sognava una società giusta e libera, ma in una maniera decisamente diversa da quella che, qualche anno dopo, la Russia avrebbe cercato di realizzare.
Questo suo separarsi dal mondo (ed in questa separazione c’è appunto tutto il “sacro” del nostro Solovev) fece di lui un vero e proprio mistico: un’anima che, senza bisogno di istituzionali consacrazioni, cercò nella solitudine della propria coscienza una Verità da cui e per cui si era sentita chiamata. Uno “starec” si dice in lingua russa, proprio come quello che si incontra nei Karamazov. Una guida spirituale, però, con gli anni di un giovane; un cuore appesantito dalle angosce del mondo ma reso leggero dalle due ali dello spirito e della ragione.
Un incontro che salva il mondo
E poi, avvenne una di quelle cose che nel mondo, se si è fortunati, può trovarci occasionali spettatori. Mi riferisco a quando, indipendentemente dalla nostra volontà, ci capita di assistere all’incontro tra due grandi. Immedesimiamoci dunque in anonimi passanti che, in un assolato pomeriggio estivo del 1873, si fermano in uno dei tanti caffè pietroburghesi, desiderosi di sedersi ad un tavolino per sorseggiare qualcosa mentre la Neva accompagna i loro occhi col suo fluire imperturbabile.
Ecco. Al tavolino accanto al nostro ci sono due tipi. Sembrano padre e figlio, tutti e due con la barba, l’una grigia l’altra nera come la pece. Il padre è un uomo magro ma alto e imponente, il cui busto pende in avanti non per qualche acciacco o stanchezza, ma quasi per un’abitudine ormai inveterata al pensiero, al ripiegamento su se stesso. L’altro, il figlio, quello più giovane, porta addosso abiti lisi e tiene le braccia stese innanzi a sé, con le mani incrociate sul bordo del tavolino. Ha una postura eretta, svettante, senza che ciò ne faccia un tipo altezzoso. Il suo sguardo è ricavato da zigomi abituati alla precarietà e alle veglie notturne, ma i suoi occhi emanano una luce viva e bellissima! Il padre e il figlio stanno l’uno di fronte all’altro. In quel momento, di quel giovane, nessuno ha ancora capito niente. Solo suo padre lo conosce davvero perché sa benissimo cosa quel ragazzo voglia annunziare al mondo. Il vecchio, invece, tutti dicono di capirlo e di conoscerlo, ma solo suo figlio – che gli sta di fronte, faccia a faccia – può dire di averne compreso ogni cosa. Nessuno conosce quel padre come suo figlio, e come coloro ai quali un tale figlio vorrà rivelarlo. Questo giovane è Solovev. L’uomo più anziano che gli siede di fronte è Dostoevskij. Lo sguardo che li incatena è uno spirito che, procedendo da entrambi, raccoglie da tutti e due nient’altro che Verità e Bellezza. In quell’istante, è come se il mondo intero sia salvato. E ad un altro tavolino, poco lontano, portato lì da una provvidenziale macchina del tempo, un monaco di nome Rublef può trarre ispirazione per la sua più celebre opera.
Rinuncerei volentieri a dieci anni della mia vita per poter essere stato lì. A guardarli in quell’anticipo beatifico di Trinità. Mi sarei mosso verso di loro, per baciare le loro mani. E come un po’ scherzosamente si dice dei cereali, che il buon Dio dovette creare in previsione della birra, così lì mi sarei convinto che lo stesso Creatore avesse fatto la Russia per permettere, in quel pomeriggio, un simile incontro.
Cosa si dissero? Non lo sappiamo. Di cosa parlarono? Non ci è dato saperlo.
Ma conosciamo l’Oggetto mistico del loro amore, che ci è rimasto vergato sulle pagine della storia come i Dieci Comandamenti sulle Tavole della Legge. Forse il vecchio Dostoevskij, ormai prossimo all’ultimo varco ma ancora desideroso di scrivere qualcosa, guardando Solovev in tutto il suo giovanile ed estatico splendore incorrotto, potrebbe avergli detto: «Vovka, sarai tu il mio Ivan». E l’altro, ignaro dell’altrui ispirazione, potrebbe avergli sorriso, immaginando chissà quali letterari sviluppi.
Sono quegli incontri silenziosi, che non passano alla storia pur avendola fecondata in pochi istanti.
Tra i pensatori più determinanti
Di Solovev, che ha praticamente accarezzato tutto lo scibile umano, che ci ha trasmesso riflessioni immense spaziando tra il saggio e il racconto, tra la rima e l’ode, rimane una bibliografia sterminata, complessa ma allo stesso tempo fruibile per coloro che, decidendosi ad ascoltarlo, volessero leggerne il pensiero e involarsi con lui oltre i limiti del “consentito letterario”. Tra i pensatori del XIX secolo, egli rimane uno tra i più sconosciuti, ma anche tra i più determinanti. Morto nel 1900, come un profeta sull’orlo di un Nuovo Testamento del mondo, fu antesignano russo di quella meravigliosa Simone Weil che sarebbe nata qualche anno dopo in Francia, e della quale tratteremo nel prossimo articolo di questa rubrica. Divertente a tal proposito pensare che nei salotti russi, mentre Mosca cercava di imitare Parigi, tutti ignorassero come qualche anno dopo Parigi avrebbe ripresentato Mosca in uno dei suoi spiriti più grandi ed immortali!
Eppure, di questa Europa tra gli Urali e le Colonne d’Ercole, cosa ci è rimasto di sacro? Queste vite splendide che l’hanno attraversata come comete, hanno lasciato cadere sulla nostra civiltà frammenti di stelle da cui è possibile ricreare la vita?
Diremmo di sì. Ma non basta parlarne. Occorre leggere.
In particolare, del grandissimo Solovev, ripropongo la lettura che, forse più di tutte, potrà farci capire al meglio l’anima di quest’uomo in cui, evidentemente, c’è molto più del solo elemento sacro: Sulla bellezza. Nella natura, nell’arte, nell’uomo (128 pagine, 12,35 euro), pubblicato da Edilibri. Mi fu consegnata dal mio compianto amico Nino Mazzaglia (a cui questo articolo è dedicato), il quale mi parlò la prima volta di questo Autore e me lo fece conoscere. Mi regalò questo ed altri libri di Solovev e mi disse che nessuno, come lui, aveva compreso ciò che l’Europa era stata e ciò che sarebbe diventata. Nessuno come lui aveva letto nell’uomo moderno, così bene, i tratti delle sue virtù e le possibilità delle sue voragini. Nessuno, come lui, aveva capito e spiegato così bene Dostoevskij, che era un po’ come la “parabola”, il seme del verbo seminato nei solchi della letteratura; mentre Solovev ne rappresentò l’interpretazione forse più autorevole ed autentica.
E tuttavia la critica letteraria non rappresentò per lui l’unico spazio abitato. Nell’ambito della teologia, per esempio, egli cercò faticosamente di ricostruire un percorso cristocentrico dal quale poter espandere l’indagine ad ogni orizzonte percorribile dai sensi dello spirito; oltretutto, nella sua lunga disamina socio-teologica sull’Islam e sull’Ebraismo, Solovev diede segno di possedere perfettamente (e in tempi non sospetti) quel senso autocritico che gli permise di compiere una riflessione più che onesta sia dal punto di vista religioso che intellettuale quando, dovendo descrivere e commentare la struttura e i fondamenti delle più grandi religioni monoteiste, non si esimette dall’essere profondamente severo con lo stesso Cristianesimo, di cui pur si considerava ed era uno strenuo ed appassionato difensore. Diceva, a tal proposito (riferendosi per esempio all’antisemitismo o alla demonizzazione dell’Islam): «Potremmo forse considerare con biasimo molti aspetti e molte leggi di queste grandi religioni ma, se consideriamo con quanta poca fedeltà ci siamo comportati da cristiani nei confronti del mondo, allora comprenderemo che il biasimo peggiore spetta a noi; non per essere stati cristiani, ma per non esserlo stati davvero, per non esserlo stati affatto.»
Concludo riportando le parole che un altro immenso filosofo e teologo, Von Balthasar, volle dedicargli quando affermò che egli fu: «Il più grande artefice di ordine e di organizzazione nella storia del pensiero».