Intervista a Mariantonia Avati, autrice del romanzo “A una certa ora di un dato giorno”: “Il dolore è il collante che lega le persone che si scelgono. Anche la persona più risolta ha comunque antiche ferite mai risanate e spesso coperte da parecchia polvere. La dipendenza che accomuna tutti è quella da sé. Abbiamo dimenticato di essere soggetti sociali. Disponiamo di centinaia di mezzi di comunicazione per poi non dire nulla. All’essenza, la propria, non si arriva mai”.
Siamo fatti di immagini e di ricordi, pezzi di storia che al rumore del mondo non interessano ma per noi sono linfa, rappresentazioni di ciò che ci ha fatto diventare quello che siamo. Mariantonia Avati, nel suo ultimo libro edito da La Nave di Teseo, A una certa ora di un dato giorno, ha messo in fila le immagini e i ricordi di una coppia, Emma e Luca, riflesso dei molti volti dell’amore. Attraverso una scrittura profonda e penetrante, mi sono addentrata nella storia di un matrimonio (ne abbiamo scritto qui) che scava nell’intimità delle nostre certezze, quelle zone spesso celate per timore della sofferenza.
Ho provato a sondare alcune di queste zone d’ombra con Mariantonia Avati.
Marie-France Hirigoyen nel libro Molestie Morali. La violenza perversa nella famiglia e nel lavoro ci insegna che le carenze vissute nell’infanzia spingono a ricercare, per tutta la vita, ciò che è mancato. Pertanto, ogni forma d’amore avrà l’obiettivo (inconsapevole) di raggiungere quei feedback di cui la persona ha bisogno per difendersi dalle angosce passate. Mi sembra che la lezione di Hirigoyen si possa applicare al tuo libro: Emma, la protagonista, rappresenta le tante donne che scelgono (o si illudono di scegliere) qualcuno in grado di leggere e comprendere il proprio dolore. Luca è il ragazzo con il quale condividere le proprie paure e i propri vuoti. E lui farà lo stesso con lei. Le loro fragilità li unisce ma saranno proprio queste a spingerli sull’orlo del precipizio scontrandosi con i fantasmi del passato, con chi è “scomparso” e con chi non è mai stato presente. Condividi queste riflessioni circa le assenze, i dolori, i vuoti emotivi, le relazioni morbose e instabili. Che cosa ti ha spinto a scrivere una storia nella quale molte donne potrebbero rispecchiarsi?
«Condivido pienamente questa riflessione. Ho appena compiuto 54 anni. Ho attraversato tante storie, non mi riferisco solo a quelle sentimentali, da aver maturato una certa esperienza. E posso affermare senza avere il timore di essere smentita, che i meccanismi affettivi hanno origine sempre dallo stesso luogo, un ambiente dove ogni essere umano custodisce o imprigiona le proprie ferite. Il dolore è il collante che lega le persone che si scelgono, e con esso la speranza di guarire dalla sofferenza che ci portiamo dentro. Anche la persona più risolta ha comunque un carico di aspettative disilluse, antiche ferite mai risanate e spesso coperte da parecchia polvere. L’uomo e la donna che scegliamo come compagno di viaggio sembra essere la persona giusta con la quale riaprire quella porta, quel cassetto, quel coperchio e affrontare il trascorso. Solo dopo parecchio tempo però ci accorgiamo, e questo vale per tutti, che nessun essere umano in nome dell’affetto o dell’amore potrà salvarci. Nessuno cura nessuno. L’errore comune e nei confronti del quale io sono assolutamente indulgente, è quello di attribuire all’altro la possibilità di essere felice. La felicità, se esiste, è una condizione intima che non può nascere che da una riflessione assolutamente personale, una scelta individuale. Allo stesso modo, attribuire a chi ci è accanto la responsabilità della propria frustrazione non è onesto, salvo quando accade che uno dei due sia violento, nelle parole, nei gesti. La storia che ho raccontato apparentemente potrebbe essere considerata fra quelle che parlano di amore malato. Invece no. Non lo è. Io racconto la dinamica universale che lega due persone che si amano, un meccanismo che scatta a qualsiasi età, latitudine, epoca. Ci innamoriamo, e così è stato per le nostre madri, le nostre nonne e sarà per le nostre figlie, di chi saprà riflettere nei propri occhi la nostra immagine più bella. La persona che scegliamo è quella che ci consegna il ritratto di noi stesse che più ci piace, che forse non somiglia alla realtà, ma alla donna che vorremmo essere e che non siamo mai diventate. Attraverso quali percorsi si innamora un uomo, invece, per me è ancora un mistero. Ma so che io ho voluto bene sempre a uomini che hanno mantenuto vivo l’aspetto femminile, quello originario, congenito, e che una certa parte di cultura impone ai maschi poi di rifiutare, cancellare, dimenticare. Gli uomini che resistono alla metamorfosi culturale amano le donne in un modo che io in parte riconosco, che mi consola, che mi dà speranza. Sono uomini che hanno una marcia in più, che non temono le donne. E Luca, il mio protagonista è così. Ma poi è incorso in un incidente che purtroppo non gli ha consentito di seguire la sua natura».
Emily Dickinson metteva in guardia dall’avvicinarsi a una persona dal cuore a pezzi a patto di aver sofferto altrettanto. Luca è un ragazzo con un passato torbido, oscuro che non viene mai totalmente rivelato ad Emma, neppure dopo il matrimonio. I suoi fantasmi continueranno ad essere presenti e provocheranno delle crepe sempre più profonde nel loro rapporto. Crepe che negli anni diventeranno inevitabili. Emma si convince di poter aiutare Luca anche a costo della sua stessa salute mentale e psichica. L’errore di Emma è lo stesso commesso da molte donne che si imbattono in una relazione malata. Che cosa salveresti di Emma? E qual è, in fondo, la sua colpa (se di colpa si può parlare)?
«Emily Dickinson, della quale sono stata tanto innamorata da occuparmi per anni della sua vita e della sua poesia con l’intento di fare un film sugli ultimi anni della sua esistenza, metteva in guardia, è vero, ma sarebbe stata la prima a innamorarsi di chi avvertiva avesse il cuore a pezzi. E io credo che sia impossibile sfuggire a questo meccanismo, innamorarsi di qualcuno che non abbia dentro un proprio dolore, che non lo metta in gioco. Invito a ragionare su una cosa banale: non conosco nessuno che sia migliorato attraverso la gioia. Gli eventi positivi ci appagano, ci rasserenano, ci rendono euforici. Ma non modificano la parte più intima del proprio sé. Solo il dolore consente di migliorarsi, se lo si accetta e lo si attraverso tutto. Se invece lo si rifiuta, e si cercano vie di alienazione, distrugge. Il dolore è l’occasione per cambiare la nostra vita. E Emily Dickinson lo sapeva meglio di tutti, e lo ha usato per fare una scelta estrema, contemplativa, eppure carica di vita. Di Emma salverei tutto, perché come dicevo prima ha dovuto attraversare e abbracciare la sofferenza per poi rinascere, e ciò accade solo quando la si accetta, quando si cessa di voltare le spalle per non vedere. Io racconto di due protagonisti che rappresentano proprio la duplice possibilità: accettare o rifiutare, abbracciare o scappare, resistere o morire. Ma salvo anche Luca, perché purtroppo è solo uno che non ce l’ha fatta. E senza arrivare agli estremi della mia storia, affermo che il legame che unisce i miei protagonisti è quello comune alla maggior parte degli esseri viventi nel mondo occidentale, contemporaneo».
Luca ha una dipendenza. Emma lo sa, conosce il perimetro di questa storia ma non conosce tutti i particolari che vengono celati, nel tempo, proprio da Luca. Mi sembra che si possa parlare di dipendenza anche a proposito di Emma. Il rapporto altalenante con la madre, il passato ingombrante, il padre scomparso quando lei era una bambina… tutto ciò ha creato delle lacerazioni nella sua persona. Anche Emma ha sviluppato una dipendenza. La dipendenza di Luca e quella di Emma: cosa ci puoi dire al riguardo, quali analogie e quali differenze presentano?
«Questa domanda mi consente di dire qualcosa che ho scoperto solo una volta uscito il libro. Molte persone mi scrivono attraverso i social dicendo sempre la stessa cosa “Lei ha saputo raccontare la mia storia”. Eppure, io mi sono abbandonata a narrare una vicenda apparentemente sopra le righe. Ma il substrato sul quale matura ogni evento evidentemente è universale. Lo immaginavo ma solo oggi ne ho avuta la conferma. Il mio romanza traccia l’identikit emotivo di ogni persona quando si innamora, e quando ognuno di noi ama diventa necessariamente dipendente dell’altro, dell’altra. In alcuni casi la misura viene superata e si entra nel patologico. Nella vita comune per fortuna resta tutto entro limiti accettati, comunque tali però da creare spesso ansia. L’epoca nella quale viviamo ci rende dipendenti da moltissime cose. Giustamente i media pongono l’accento a ciò che distrugge la vita, la droga, l’alcol, a quanto corrode l’essere, una sessualità deviata, il consumismo, etc. etc. Ma la dipendenza che accomuna tutti e che distrugge le persone senza che esse se ne accorgano, è la dipendenza da sé. La nostra civiltà è costituita da esseri fragilissimi, che temono di essere scoperti. La preservazione di se stessi è la prima necessità. Abbiamo dimenticato di essere soggetti sociali. Disponiamo di centinaia di mezzi di comunicazione per poi non dire nulla, non ascoltare l’altro. Sui social si leggono solo soliloqui, monologhi recitati da chi se ne frega di essere consequenziale. All’essenza, la propria, non si arriva mai. Quindi, per tornare al mio libro, i miei protagonisti soffrono della stessa disfunzione: non hanno accettato la sola cosa che accomuna gli esseri umani, quella di dover accettare la perdita delle persone amate, la fuga, l’abbandono, la morte. Ognuno di noi deve fare i conti con le assenze, e così anche Luca e Emma».
Emma appare come una moderna antieroina. Sei d’accordo con questa affermazione? Proprio quando i ricatti morali hanno iniziato a indebolire Emma, a renderla fragile al punto tale da non riuscire a discernere le umiliazioni e le perversioni dalla realtà dei fatti, Emma si libera dalle catene di un amore malato. La rinascita è possibile ma qual è il costo umano, il peso di una tale presa di coscienza?
«Emma è una donna come tutte, che fa gli stessi errori e le stesse cose sacrosante. Ama come sa amare e sperimenta ogni giorno qualcosa di diverso, animata dalla speranza di salvarsi e preservare quello che ha costruito. Idealizza, come noi donne idealizziamo sempre, trasforma quello che non le piace in quanto vorrebbe per non rinunciare al sogno. Le donne, fin dagli inizi dei tempi, sono le depositarie dei racconti di fantasia, narrano le favole ai piccoli, educano al trasporto verso il trascendente. Le donne hanno bisogno di coltivare costantemente quel terreno magnifico che è l’immaginazione. Non è un caso che leggano più romanzi degli uomini. Emma fa la stessa cosa, come può, quando può. Il prezzo da pagare è appunto abbandonare il sogno e decidere che non si avrà più paura del buio. Ogni cosa, quando la si affronta, è meno terrificante di come la si era immaginata. E soprattutto la cosa peggiore è nascondere la testa sottoterra e temere che non possa esserci una alternativa. Siamo abituati a sentire storie drammatiche di donne che non sono riuscite a liberarsi dai loro aguzzini, ma per fortuna ne esistono migliaia di altre che non finiscono nella cronaca nera, di persone che poi sono riuscite a rinascere e delle quali si parla poco».
Emma è anche madre. Le donne in queste situazioni agiscono tutelando i figli dall’odio e dal rancore, dalle violenze familiari sia esse fisiche che psicologiche. Come si comporta Emma e quali sono gli effetti sul figlio?
«Il figlio di Emma e Luca, che entrambi amano moltissimo, è la voce della semplicità. Come ogni bambino, riduce tutto all’essenziale e suggerisce la via più onesta, quella diretta. Lui non cerca scorciatoie, perché in effetti non ce ne sono. Lui è la luce nel mio racconto».
La stanza d’albergo. L’epilogo sembra voler sottendere l’idea che abbiamo dell’amore: di chi ci innamoriamo e di cosa ci innamoriamo. Che cosa ci puoi dire al riguardo?
«La stanza d’albergo rappresenta la realtà. Sappiamo bene tutti che la verità spesso non è bella, è sporca, contorta, buia, pericolosa. Ma è quella e prima o poi va guardata. Luca e Emma, in un luogo assurdo ma realistico, chiedono entrambi di essere non solo accettati, ma ancor di più, di essere amati per quello che sono. Luca, in fin dei conti, implora una cosa dal suo punto di vista lecita: “amami anche se non valgo niente, anche se sono debole, anche se non riesco a salvarmi”. Non è forse quello che ognuno di noi vorrebbe, essere amato per i propri difetti piuttosto che per le qualità?»