Dentro la scuola, dentro la vita di Tecla, insegnante palermitana con incarico annuale a Firenze. In “Diario inquieto di un’insegnante precaria” di Mari Albanese e Maria Grazia Maggio si racconta la sua storia, con tocco surreale, Tecla dialoga col proprio… diario. Un espediente che porta il lettore dentro il reale funzionamento del pensiero, a volte assertivo e unidirezionale, altre ambiguo e ambivalente
Il Diario inquieto di un’insegnante precaria (150 pagine, 12 euro) di Mari Albanese e Maria Grazia Maggio (da sinistra a destra nella foto), pubblicato da Navarra, è un’opera surreale dal punto di vista narratologico, reale, invece,molto reale il tema trattato: il precariato, che caratterizza non solo il mondo della scuola, ma moltissimi altri ambiti lavorativi. Spesso l’insicurezza economica diventa precarietà di vita, insicurezza interiore, incapacità di darsi direttive sicure da perseguire per raggiungere la libertà, quella vera, che è nello stesso tempo materiale e spirituale, del corpo e della mente.
Da Palermo a Firenze
Quanto suddetto è ciò che vive Tecla, protagonista del romanzo, insegnante precaria che da Palermo, la sua città natia, si trasferisce per un incarico annuale, a Firenze e trova nel suo diario, il confidente, l’amico sincero a cui parlare del suo iter professionale ed esistenziale. Così di pagina in pagina, scuola, amori ed amicizie acquisiscono l’importanza e il rilievo narrativo che il suo sentire loro attribuisce. Tutto normale: un romanzo diaristico profondamente connesso alla realtà dei nostri tempi, dei quali vengono denunciate anche l’indifferenza che caratterizza il vivere sociale, la globalizzazione omologante, dispensatrice anche di pseudo-abbracci e baci globalizzati,mentre di fatto «non siamo capaci di toccare le cose con il dovuto amore, di annusarle e farle nostre. E vaghiamo come automi nella nostra assoluta e piena indifferenza, mascherati da abiti buffi, da fronzoli che riempiono i nostri vuoti esistenziali» (pagina 72).
Un piede scalzo e l’altro no
E allora in che cosa consiste, dove si ravvisa il surreale in questo romanzo? Per Andrè Breton, il surrealismo è un automatismo psichico puro, attraverso il quale ci si propone di esprimere con le parole o in altri modi il reale funzionamento del pensiero; orbene le autrici del romanzo, animando e facendo dialogare il cartaceo diario di Tecla con lei stessa, dandogli così spirito e pensiero che lo rendono atto a consigliare e proporre suggerimenti alla giovane donna, ci portano dentro il reale funzionamento del pensiero, talvolta assertivo, unidirezionale, tal’altra ambiguo, ambivalente, scissionista tra essere e dovere essere, tra chi sono e chi vorrei essere, insomma inducendoci a camminare con un piede scalzo e l’altro no, come più volte con metafora esemplificativa. il diario ricorda a Tecla: «I vostri piedi sono trattenuti dai lacci, senza che possano liberarsi verso la conoscenza più profonda… Rossandra… stava sempre con una scarpa sola: una la teneva per non dispiacere la madre, l’altra la toglieva per affermare il suo sogno di libertà… La bambina diventata grande ha continuato sempre a mediare fra ciò che desiderava il suo cuore e il non dispiacere chi le stesse vicino. Non si fa così, non è giusto…” (pagina 95). Insomma Mari Albanese e Maria Grazia Maggio attraverso il surreale delineano una condizione esistenziale caratterizzata dalla scissione tra l’io e il suo alter ego e che solo alla fine convergono nel freudiano principio di realtà che induce la protagonista a vivere la sua libertà anche attraverso l’accettazione serena dell’eterogeneo flusso che il vivere comporta.
La riflessione su lavoro e sud
Palermo viva e presente nei ricordi e Firenze la nuova sede lavorativa, sono le dimensioni spaziali della narrazione, tuttavia tali città acquisiscono anche un valore simbolico perché insieme alla stazione e ai binari proposti dall’immagine di copertina, sollecitano il lettore alla riflessione sulla persistente carenza occupazionale che continua a caratterizzare il Meridione e la scuola. Lo stile scorrevole, grazie anche alla chiarezza del linguaggio che non perde tale qualità pur nella presenza di qualche termine dialettale ( abbannìa, calia, etc..), volutamente sottolineato attraverso le virgolette, rende il romanzo di gradevole lettura, se si prescinde dallo stordimento iniziale in cui non si può non cadere a causa della presenza di un diario che pensa e parla.
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