Un viaggio e l’amicizia fra un anziano archeologo e un ragazzo ischitano, nel 1944, sono al centro del nuovo romanzo di Franco Faggiani, “Non esistono posti lontani”. Nonostante il contesto bellico emrgono dolcezza, bellezza della natura, amore per l’arte. “I protagonisti Filippo e Quintino? Sono i proprietari delle mie due anime. Cosa insegna questo romanzo? Che si arriva ovunque, con la fantasia, il coraggio, la saggezza, la gentilezza…”
Cosa ci fanno un anziano archeologo e un ragazzo ischitano su un camion che si avventura dal nord Italia verso Roma scavalcando le Alpi, nel 1944? Franco Faggiani ambienta il suo nuovo romanzo Non esistono posti lontani – in libreria per Fazi Editore dal 9 luglio – durante la fase più amara della seconda guerra mondiale, intrecciando i fili di una storia di amicizia e di amore per l’arte. Un viaggio speciale e un’avventura ricca di umanità, sorprese e paesaggi da scoprire: ne abbiamo parlato con l’autore, che ci ha guidati alla scoperta della sua nuova appassionante storia.
Aprile 1944, un carico di opere d’arte viene trasferito da Roma a Bressanone per essere portato in Germania, di fatto rubato all’Italia. Filippo Cavalcanti, archeologo, è incaricato di controllare che tutto vada per il meglio, ma si ritroverà invece a bordo di un camion speciale detto il “rinoceronte” con un bizzarro compagno di viaggio per tentare di salvare le opere, attraversando l’Italia fino alla capitale e poi a Ischia. Dove prende vita questa storia? Dietro c’è forse qualche episodio reale?
«Tendo sempre a mescolare tanti piccoli episodi reali, magari capitati anche a distanza di molto tempo, con altri di pura fantasia, e mi piace quando, a lavoro finito, nemmeno io riesco più a distinguerli. Vuol dire che la fusione è riuscita bene. Il seme comunque spunta dalla casuale lettura di Rodolfo Siviero, di Francesca Bottari, edito da Castelvecchi. Siviero è stato storico dell’arte e gran cacciatore di opere d’arte rubate. Da fascista si era dovuto limitare a tenere d’occhio le rotte che queste avevano preso, da partigiano aveva poi provveduto a migliaia di recuperi, creando una rete di collaboratori e agenti segreti destinati proprio a questo scopo. Un protagonista colto, geniale e molto controverso. Uno di quelli che piacciono a me».
Al centro del romanzo ci sono due personaggi distantissimi che, piano piano, scopriranno di poter essere amici. Uno è un anziano professore di archeologia romano, idealista e inizialmente un po’ passivo, l’altro è un ragazzo ischitano dall’infanzia difficile e dalla morale non integerrima, ma fortemente empatico e dedito all’azione. Come sono nati nella fantasia dell’autore Filippo e Quintino?
«Sono i proprietari delle mie due anime. Da ragazzo sono stato spesso Quintino, con azioni repentine, avventatezza, progetti strani, coraggio sovente sconfinato nell’incoscienza, sparizioni improvvise e altrettanto rapidi ritorni. A 19 anni, per dire, ero finito tra le montagne della Nuova Guinea, dall’altra parte del mondo e non c’era modo di comunicare con nessuno. Il tutto mi è però servito a organizzarmi al meglio la professione del giornalista free lance; così sul fronte somalo o nell’entroterra dell’Argentina me la sono sempre cavata da solo. Filippo invece sono un po’ io adesso, non a caso abbiamo pure la stessa età. Leggo, scrivo, cammino a lungo, rispetto le regole, cerco di mediare ma al tempo stesso sono sempre più intollerante verso le persone che hanno comportamenti e modi incivili, per sintetizzare educatamente. A volte, comunque, mi prendono ancora degli attacchi di “Quintinite”, sono tentato di fare uno zaino e partire per posti lontani. Ma se poi non esistono davvero?»
Una delle cifre del romanzo è la delicatezza: intorno alla vicenda dei due protagonisti impazza la guerra nel suo momento più crudo, con la ritirata tedesca e la guerra civile. In mezzo alla violenza, alla povertà e alla morte, Filippo coltiva la bellezza e rifugge la cattiveria. Come si coniugano gli ideali, in questa storia, con la tragica e schiacciante realtà?
«La realtà è fatta di cose concrete, palpabili, che lasciano segni tangibili e, nel periodo bellico, decisamente brutte. Gli ideali, quelli dei protagonisti, sono fatti di speranze, sogni, aspirazioni, buoni progetti, quindi sono decisamente più forti della realtà, ed è giusto che prevalgano. Nella quotidianità dei due protagonisti la guerra c’è ma se ne sta un po’ defilata, scorre sui fianchi, non è mai nel mezzo del racconto. Al centro ci sono le speranze e la nascita di un’amicizia, che Filippo Cavalcanti, una vita trascorsa da solitario, non riesce quasi a comprendere del tutto. Non caso, quando una delle sorelle ischitane gli chiede se tra lui è Quintino è nata una amicizia lui risponde “una specie”».
Cosa rappresenta l’arte in questa storia, e nella vita di Filippo?
«Nella vita di Filippo l’arte, la scoperta, l’archeologia sono tutto. Rappresenta, come detto, il punto di partenza. Per scrivere di autori e opere mi sono dovuto ovviamente dovuto documentare e mi sono pure appassionato a certi periodi, a certe opere e a certi personaggi. I quali più sono fuori dalle righe – questo si sarà capito – più mi affascinano. Del Caravaggio fino a qualche mese fa sapevo poco o niente, adesso ho una collezione di libri che lo riguardano, potrei quasi scrivere la sua vita romanzata, come avevo fatto per Shizo Kanakuri ne Il guardiano della collina dei ciliegi».
La dolcezza è trasmessa anche dal paesaggio, coprotagonista di questa storia che attraversa tutta l’Italia dalle Alpi alla pianura Padana scendendo per i luoghi più segreti dell’Appennino, spesso sconosciuti ai più. In contrapposizione alla guerra, il paesaggio trasmette pace e quasi magia, riconciliando con il mondo i personaggi. Che ruolo riveste la natura nel romanzo?
«La natura è un insieme di molte cose, per esempio colori, masse, odori, spazi, paesaggi, materiali diversi, forme solide o evanescenti. Questo insieme è capace di consolare, rigenerare, ma anche di spaventare, aggredire, come ben capiscono i due personaggi del libro. La natura bisogna un po’ conoscerla, conviverci almeno un po’, in silenzio, rispettarla. Io ci ho provato, nel tempo, e credo di essere riuscito a farmela amica. Oggi mi preoccupa di più andare da solo in una grande città che non conosco che passare lo stesso tempo in una foresta mai vista. La natura è sempre stata una coprotagonista dei miei romanzi, ormai mi è stata appiccicata l’etichetta di “scrittore della natura”. Non mi piacciono in genere le etichette, ma questa, in fondo, la porto addosso volentieri».
Non esistono posti lontani è anche una sorta di giro turistico tra confini e paesaggi che dal nord scendono a sud e attraversano un’Italia fatta di piccoli paesi e piccole esistenze. Nei ringraziamenti si legge che è un viaggio compiuto davvero dall’autore, con tanto di mappe e appunti. Come è stato questo itinerario? Conosceva già tutti i posti, e come si è documentato?
«Non è proprio un giro turistico, ma viaggio d’avventura, che i due protagonisti hanno dovuto fare per necessità, per sopravvivere. Ho prima immaginato il percorso e poi, per renderlo più simile a quello dei protagonisti, almeno nelle sensazioni relative alle distanze e ai luoghi sconosciuti, siamo partiti – mia moglie Manuela al volante e io a guardar fuori – avendo in mente solo la direzione, ovvero il sud. Ma non abbiamo consultato cartine o usato strumenti elettronici e mai abbiamo utilizzato il navigatore. Chiedevamo notizie, luoghi e strada alla gente. Questo ci ha fatto fare giri immensi, centinaia di chilometri in più, abbiamo dormito e mangiato nei posti trovati casualmente lungo la strada, i primi che ci capitavano sottomano al calare del buio. E questo ci ha permesso incontri straordinari. I monaci, per esempio, o Santino il calderaio, e anche il carbonaio che andava in giro con i muli e il capo partigiano, ormai vecchio, di Pontremoli, li abbiamo incontrati davvero. È questo che ha dato vita al racconto, non la documentazione storica. Dalle parti di Rieti ci siamo messi a girare per i paesi per trovarne uno che avesse le caratteristiche necessarie per nasconde il prezioso carico. Così abbiamo scoperto Pozzaglia, dove siamo arrivati a metà pomeriggio, nel vuoto e nel silenzio assoluto. C’era solo un piccolo bar, fortunatamente aperto, dove ci siamo fatti fare un panino. Al termine del panino e dopo aver naturalmente attaccato bottone (una delle mie specialità), siamo venuti a sapere dal barista che Kesserling, il capo dell’armata tedesca, era davvero andato lì a rintanarsi per alcuni giorni, come ho poi scritto nel romanzo, con il prete che lo aveva fatto dormire nei posti più disparati per non farlo catturare. Io questa cosa non l’avevo letta in nessun libro, in nessun documento, e se non fossi passato per caso in quel bar non l’avrei mai scoperto. Le storie nascono così, bisogna andarle a cercare e avere fortuna».
Se fossimo al cinema, potremmo dire che questo viaggio è un road movie: Non esistono posti lontani è infatti la storia di una fuga, di un salvataggio e, nel rispetto dello schema archetipico, vede un cambiamento dei personaggi. Cosa accade tra Quintino e il professore, e in che cosa l’uno influenza l’altro?
«Il professor Cavalcanti, poco a poco, vede in Quintino quel figlio a cui non aveva mai pensato ma che alla fine, come lui stesso riconosce, avrebbe voluto avere. Impara, seppur con distacco, ad apprezzarne l’ironia, il coraggio, il giocare d’azzardo, il rischiare e soprattutto la generosità di fondo. Tranne la generosità, le altre qualità di Quintino lui non le ha mai avute. Quintino vede nel professore quel padre che gli è sempre mancato. Ne ammira la pacatezza, la severità, la comprensione, il bello stile».
Che cos’è il tempo piccolo, e perché è così importante per i personaggi?
«Pensiamo alle cose che dobbiamo dire o fare per molte ore, giorni, anche settimane. La tiriamo alla lunga ma poi una decisione bisogna pur prenderla. Il tempo piccolo è quel tempo che precede di pochissimo la decisione definitiva, il “la va o la spacca”, con tutti i rischi del caso. È, dunque, il momento cruciale. Per i protagonisti è importante perché nel loro viaggiare alla rinfusa le decisioni da prendere all’improvviso sono davvero tante e decisive».
A un certo punto, un monaco dice che «La perfezione alla lunga non è una conquista, ma un pericolo». Il viaggio dei due sfiora costantemente la guerra e i pericoli, senza tuttavia mai metterli davvero a rischio. Questo camminare sul crinale farà però sperimentare al professor Cavalcanti il vuoto che si apre tra aspettative sulla realtà e verità cruda dei fatti, tra ideale e concretezza, facendolo sentire spesso inadeguato, fuori dal mondo. Essere imperfetti è un difetto?
«L’imperfezione è un pregio. Induce una persona consapevole dei propri mezzi e con qualche aspirazione a fare di più e meglio. È dunque uno stimolo. La vita in cui tutto è perfetto alla lunga diventa noiosa».
«Non ci sono posti lontani. Ci sono solo posti da raggiungere» dice Quintino a un certo punto. Qual è l’insegnamento universale di questo strano viaggio tra personaggi apparentemente così diversi?
«L’insegnamento? Con la fantasia, il coraggio, la consapevolezza, la saggezza, la gentilezza puoi raggiungere qualsiasi meta. Naturalmente non tutti abbiamo queste qualità messe insieme. Se ne manca qualcuna si po’ sopperire con la fortuna. Comunque – ci vorrà tempo – ma si arriva ovunque».
Una frase verso il finale del libro mi ha colpita perché, se estrapolata dal contesto, molto attuale: «La guerra sarà finita quando la gente ricomincerà a lavorare, a uscire, ad andare a trovare gli amici nella piazza del paese, ad avere voglia di mettere su famiglia». Come ha vissuto l’emergenza sanitaria di questo 2020? Lettura e scrittura sono stati compagni di quarantena oppure no?
«Sì, quella frase è molto attuale, e anche questa è fortuna, perché l’avevo scritta nell’inverno scorso. Provo un po’ di vergogna, perché molta gente ha vissuto e vive periodi davvero drammatici, nel confessare che il periodo di forzata clausura l’ho vissuto davvero bene. Solo pochi giorni prima del blocco totale nostra figlia era andata a vivere da sola e io ho occupato la sua camera con un tavolo enorme, una libreria nuova e una comoda sedia. Da due grandi finestre affiancate entra una bella luce, ci sono i doppi vetri, l’aria condizionata e assoluto silenzio (anche perché mia moglie, che fa l’architetto, continua a lavorare nella stanza che prima condividevamo). Avevo gli ultimi giri di bozze di questo libro da limare, una guida turistica da ultimare e una dozzina di articoli lunghi da scrivere per alcune riviste. Unico contatto con l’esterno: le notizie Ansa, tre volte al giorno. Poi una scorta di libri, ma in realtà ho letto poco».
Questa è la terza storia dopo il fortunato La manutenzione dei sensi e dopo Il guardiano della collina dei ciliegi, che è in finale al Premio Selezione Bancarella 2020. Che cos’è la scrittura per Franco Faggiani?
«La scrittura è il mio bel mestiere. Che ho sempre fatto, perché ho cominciato a scrivere a tempo pieno per i giornali – non fatti di cronaca ma storie, di luoghi e di persone – da quando avevo 19 anni. Se poi con quel che scrivo riesco a far star bene qualcuno, a staccarlo un po’ da terra e a farlo sognare o a far viaggiare per qualche tempo i suoi pensieri, non è solo un bel mestiere, ma il più bello dei mestieri».