Torna in libreria “La vita involontaria” di Brianna Carafa, protagonista al premio Strega 1975. Un romanzo di sapore mitteleruopeo, con un protagonista malinconico e infelice, Paolo Pintus. Disagio e delusione lo accompagnano durante la sua formazione, fino a quando…
Infine, lentamente ti dimenticano. Sei ricordato solo in due date ricorrenti: l’anniversario della tua nascita e quello della tua morte. E poi basta, più nulla, assolutamente più nulla.
Con queste parole Fernando Pessoa suggella il silenzio che può avere molteplici significazioni: spirituale, emotivo, letterario. Trovo che a proposito di quest’ultima significazione si potrebbe disquisire circa Brianna Carafa, scrittrice e psicanalista del primo Novecento, che proprio dal silenzio letterario è stata recuperata grazie al lavoro editoriale della casa editrice Cliquot che recentemente ha pubblicato La vita involontaria (144 pagine, 16 euro), il romanzo che nel 1975 si posizionò nella cinquina del Premio Strega, pubblicato all’epoca da Einaudi.
Tradizione mitteleuropea
È in questa cornice che si colloca La vita involontaria, un romanzo che incarna quello che Geno Pampaloni negli anni ’80 definiva, a proposito di narrazione mitteleuropea, «il mito di una felicità dorata e precaria, che era già presagio di irripetibilità, nostalgia e nevrosi». Di letteratura mitteleuropea parla anche Ilaria Gaspari (qui un suo video di consigli letterari per il nostro canale YouTube) nella prefazione all’edizione Cliquot ricordando le parole che, sul Corriere della Sera, Claudio Magris riservò al romanzo di Brianna Carafa definendolo come una delle prove letterarie che ricordava «i grandi e grigi libri della migliore narrativa mitteleuropea».
Conflitti e turbamento
Tra queste pagine trova terreno fertile il flusso di coscienza, il monologo interiore, il conflittuale rapporto con la genitorialità (o con le figure che vanno a sostituire i genitori), la tensione emotiva nei confronti del quotidiano che conduce, inevitabilmente, ad uno stato di turbamento e angoscia continuo. Il lirismo della scrittura accompagna la malinconia struggente del protagonista, Paolo Pintus, durante tutta la sua vita. È una malinconia che sfiora un’infelicità costantemente crescente: «mi pareva che il corpo e, con esso la mia persona, fossero isolati dal mondo, come se nessuno li avesse mai toccati. Solo il toccare, materialmente, con la mano, ed essere toccato, carezzare ed essere carezzato, continuare, stringendolo, nel corpo e nello spirito di un altro essere, avrebbe infranto le fredde e trasparenti pareti cresciute chissà quando intorno a me». Ma è solo un’illusione, quella di Pintus. Nessuna donna, nessun amico incontrato sui banchi di studio (Gabriele, Federico, Thomas), nessun professore, tanto meno i suoi familiari, nessuno poteva alleviare l’assenza attorno alla quale si sarebbe inabissata tutta la sua vita.
Viaggio e disagio
Da Oblenz (cittadina immaginaria della Germania), Paolo Pintus si trasferisce a Vallona per seguire gli studi di filosofia. Decisione frutto di una serie di raggiri, più o meno volontari, dell’amico di scuola Gabriele. Pintus si lascia sedurre, trasportato dalla fantasia e dalle promesse di un nuovo inizio. Accortosi ben presto che l’amico non sarà al suo fianco nella città universitaria, Pintus avverte un disagio crescente e una forte delusione che lo inducono a pensare di non essere in grado di affrontare la vita che lo attende.
Domande e approdo
Sulla sua strada, Pintus fa esperienza di persone che, volontariamente o meno, lo aiutano a riflettere sulla natura umana, sul significato degli accadimenti, della realtà dell’essere e del suo manifestarsi. Sarà il suicidio di uno dei compagni di università a sgretolare le poche certezze alle quali Pintus si aggrappa con già esigua convinzione. Di nuovo si domanda se sarà in grado di fare «ciò che gli altri hanno voluto che io facessi. Ma in modo oscuro e inestricabile, la volontà altrui s’era, malgrado tutto, unita alla mia e ancora un’enorme speranza attendeva l’opportunità di realizzarsi, immobile e nascosta come una belva in agguato».
I tentativi per emergere da quell’humus refrattario a qualsiasi certezza emotiva sembrano riportarlo al luogo d’infanzia, l’unico in grado di congiungere l’imperfezione di anime affini all’alterità umana: i “Tetti Rossi”. Inaspettatamente i “Tetti Rossi” fungeranno da bussola e luogo d’approdo per Pintus che fin da bambino ha tentato di conoscere l’onda sulla quale vaghiamo nell’oceano, arrivando probabilmente a capire (come insegna Burckhardt) che noi siamo quell’onda.