Intervista a Cristina Cassar Scalia, giunta al terzo volume della serie che ha come protagonista il vicequestore Vanina Guarasi, “La salita dei saponari”. “Il mio personaggio non è l’anti-Montalbano. In questo episodio c’è un riferimento a Pirandello e ho provato a rompere una certa continuità con i due volumi precedenti. Mi piace raccontare quel che c’è di bello e sponsorizzare la mia Isola, ma senza nascondere le criticità”
La salita dei saponari, che dà il titolo all’ultimo omonimo giallo Einaudi (312 pagine, 18 euro) di Cristina Cassar Scalia, esiste davvero e si trova a Trecastagni. In terra d’Etna. Conduce faticosamente dalla periferia al centro del paese: sintesi perfetta della lenta, tortuosa, indagine che impegna il vicequestore Vanina Guarrasi e la sua squadra nella terza “puntata” di un ciclo avvincente, ormai molto amato dai lettori. Capace di sorprendere al debutto (Sabbia nera) e di non deludere le attese nelle successive prove d’autore (La logica della lampara e, appunto, La salita dei saponari, tutte nel catalogo Einaudi. Cristina Cassar Scalia, medico oftalmologo originaria di Noto ma catanese di adozione, si gode il successo di pubblico e nega ogni anticipazione sul futuro prossimo del suo personalissimo immaginario poliziesco: «Il quarto libro? Devo ancora scriverlo!». Nessun problema, invece, a rispondere ad ogni altra domanda.
Vanina Guarrasi mangia “terragno” – pizza siciliana fritta, cucciddatu di San Giovanni imbottito di salame dei Nebrodi … – e vive in un comune dal nome di fantasia, Santo Stefano, distante parecchi chilometri dal mare. Insomma, l’anti-Montalbano?
«No, non è l’anti-Montalbano ma semplicemente un diverso modo di vivere la Sicilia. Per Vanina, con la sua storia alle spalle (figlia di un commissario di Polizia ucciso a Palermo dalla mafia, ndr), un buen retiro sotto il vulcano è il massimo. Non mangia pesce e non ha la terrazzina sul mare come Montalbano, ma ama il mare. Lo avevo scritto in Sabbia nera. E poi da Santo Stefano che nella realtà è Aci Bonaccorsi, una piccola Svizzera dell’Etna perché è gestita benissimo, arrivi dritto sulla spiaggia in un quarto d’ora se prendi la strada per Acireale. Anche il cibo di Vanina, peraltro, è una diversa declinazione della cucina siciliana. Lei, fondamentalmente, mangia tutto quello che io vorrei ma non posso».
Solo per redimermi dai paragoni scontati con Andrea Camilleri, si può dire senza rivelare nulla del finale a sorpresa che il suo romanzo è un omaggio a Luigi Pirandello e al Fu Mattia Pascal?
«Pirandello, Sciascia, lo stesso Camilleri fanno tutti parte del mio retroterra letterario. Quello che tu hai letto, soprattutto da ragazzo, compare sempre in ciò che poi scrivi. Proprio all’inizio ho usato una citazione di Luigi Pirandello perché, appena finito il libro, mi sono resa conto come potesse esserci qualcosa che era affiorata dal Fu Mattia Pascal. Questa cosa l’ho pensata, immaginata. Poi, me l’ha detta qualcun altro come lei adesso».
«Quest’indagine tra Interpol, videochiamate, americani, cubani gli dava la sensazione di essere in un mondo nuovo. Altro che Mobile di Catania!». Scusi se approfitto delle sue parole per chiederle: “La salita dei saponari” rappresenta nella serie di Vanina Guarrasi un salto di qualità rispetto ai due precedenti romanzi?
«Sicuramente mi piaceva rompere la continuità con gli altri due romanzi, pur rimanendo alla Mobile di Catania che è il mondo di Vanina. A parte l’indagine internazionale, che implica quanto è scritto in quella frase, in questo libro si divaga moltissimo facendo salti in luoghi anche molto lontani. Contemporaneamente, ho inserito un’altra cosa che nei precedenti libri era presente solo di striscio».
Cioè?
«Il suo passato palermitano. Adesso, diventa molto più ingombrante e si vede sin dalle prime pagine perché lei si precipita a fare di corsa quello che mai si sarebbe immaginata sino a due settimane prima, quando si svolge La logica della lampara. Vanina, infatti, torna a Palermo per infilarsi in una caccia al latitante in cui la persona da prendere è l’ultimo sopravvissuto degli assassini di suo padre. Vero è che tornerà il più presto possibile a Catania ma la presenza palermitana, ripeto, è molto più ingombrante. Anche questo rappresenta un cambio di passo rispetto ai due precedenti libri».
Parentesi palermitane a parte, sullo sfondo delle sue narrazioni spicca sempre e comunque Nostra Signora l’Etna. “A muntagna” dovrebbe far paura, eppure è straordinariamente amata da catanesi e “conterroni” limitrofi. Elogio della follia?
«In realtà, un poco di pazzia c’è. Io non sono catanese, mi sono trasferita qui a 18 anni ma ho subito vissuto questa città da catanese. In linea teorica, considerato che ancora pochi secoli fa l’Etna ha seppellito di magma gran parte del territorio (l’eruzione del 1669 devastò decine di centri abitati, raggiunse il capoluogo e si fermò in mare, ndr), ci sarebbe da avere paura. Questa sensazione, però, non l’ho mai percepita. Anzi, a vederla, sembra quasi che stia vegliando sulla città».
Il mare, l’Etna … Ma anche certe infrastrutture come la Messina-Catania, «una delle più grandi vergogne che la rete autostradale siciliana – scrive lei nel libro – abbia la sfrontatezza di esibire». Paradossi di Trinacria?
«Tengo molto a non descrivere una Sicilia da cartolina. Mi piace raccontare quel che c’è di bello e sponsorizzare la mia Isola, ma non sono disposta a darne un’immagine non veritiera. Purtroppo la nostra Isola ha criticità abbastanza importanti. E non ho alcuna intenzione di fare finta che non le abbia. Come la Messina-Catania. Un’autostrada a pagamento, eppure in condizioni pietose. Sì, è una vergogna!».