7 domande a Massimiliano Felli, autore di “Vite aprocrife di Francesco d’Assisi”: «Scrivo di una creatura letteraria, e lo “scavo” qui non porta alla luce novità su Francesco dal punto di vista storico, ma – spero – suggerisce al lettore alcune questioni umane, psicologiche, conoscitive che riguardano tutti noi. In letteratura non c’è niente di intoccabile…»
Un romanzo storico che si svolge circa quarant’anni dopo la morte di Francesco, periodo in cui l’ordine fondato dal santo di Assisi è allo sbando. Ecco Vite apocrife di Francesco d’Assisi (300 pagine, 17 euro) di Massimiliano Felli, pubblicato da Fazi. Felli immagina un giovane amanuense che affianca Bonaventura da Bagnoregio nella stesura della biografia di Francesco, episodi censurabili e censurati della vita del santo e la ricerca di un suo ultimo seguace. Un racconto sorprendente e affascinante, documentatissimo, reso in una lingua sapiente, capace di conquistare lettori, di non mollarli.
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Massimiliano, partirei dalle righe iniziali che introducono il tuo romanzo: “Benché basato su fonti storiche, il presente romanzo è da considerarsi un’opera di invenzione narrativa. Come talvolta sono le fonti storiche stesse”. La domanda è: in Vite apocrife di Francesco d’Assisi dove finisce la storia e dove inizia la fiction?
«Nel primo capitolo (anno 1266) troviamo Bonaventura da Bagnoregio, generale dei Francescani, alle prese con due problemi relativi alla gestione della memoria biografica di Francesco d’Assisi: da un lato egli ha la necessità di rinsaldare le divisioni sorte in seno all’ordine, quindi decide di distruggere tutte le testimonianze relative alla vita del santo e di scrivere di suo pugno una nuova Legenda, una biografia di Francesco univoca, ufficiale, incontestabile; dall’altro deve mettere a tacere le calunnie che un frate eremita ed apostata, demente per l’età o posseduto dal demonio, va spargendo sul Santo Poverello. Due linee narrative, una inventata e l’altra storicamente documentata. E ovviamente un lettore ignaro della “questione francescana” sarebbe portato a credere che l’elemento di fantasia sia il rogo di libri, invece è il contrario. Ciò accade quasi dappertutto, nel libro, a dimostrazione di quanto il confine tra un’invenzione plausibile e gli incredibili fatti accertati sia labile, come labile è il confine tra testimonianze storiche degne di fede e le leggende/mistificazioni fiorite a posteriori. Il mito del Poverello d’Assisi è tra i primi casi di moderno storytelling, proprio agli albori della nostra società capitalistica, che nasce appunto nell’Italia comunale del Due-Trecento».
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Possiamo sintetizzare dicendo che il tuo è un romanzo storico che prende a pretesto un personaggio popolarissimo per indagare il rapporto tra impostura e potere?
«Sì, esattamente, e inoltre direi che in questo caso si esce dall’ambito della letteratura “di genere” per due motivi: il primo è che esso viene trasceso, è un mero strumento per analizzare un meccanismo comunicativo operante tuttora, e dunque con un forte riferimento alla contemporaneità; il secondo è l’attenzione che ho riservato alla lingua del romanzo, una lingua “para-medievale” creata appositamente, un impasto linguistico non-standard che mira all’immedesimazione del lettore non solo tramite la puntuale ricostruzione d’ambiente ma attraverso la lingua stessa del libro».
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La zetetica in filosofia è l’arte di ricercare continuamente la Verità. Questo è uno dei temi affrontati nel libro: ad un certo punto il magister Bonaventura da Bagnoregio chiede al suo allievo, il protagonista del romanzo, fra’ Deodato: “A quale prezzo dovremmo ricercare la Verità?”. E subito dopo si chiede: ammesso che si riesca a trovarla, che farsene? L’argomento è quanto mai attuale, in tempi di social network e post-verità. Che valore ha, oggi, la Verità?
«Ho scelto Francesco, una figura a proposito della quale tutti crediamo di conoscere “la verità”, l’unica Verità (concetto pericolossimo), e ho decostruito il suo mito usando come grimaldello una versione paradossale della sua biografia, inventata ma plausibilissima, rispettosa dell’aneddotica tramandata dalla tradizione ma equivocandola e travisandola volutamente, proprio come una sorta di “esperimento” circa le nostre possibilità conoscitive, la nostra capacità di orientarci nel mondo e tra le informazioni che riceviamo, sia che ci troviamo ad analizzare un manoscritto medievale sia che ci troviamo alle prese con una fake news odierna».
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Quello che viene fuori dal tuo romanzo è un Francesco più umano e meno icona, combattuto e dubbioso, sicuramente non un santo in vita come quello che ci hanno dato a conoscere sin dal catechismo. Quali sono i rischi, anche letterari, di aver “toccato” un intoccabile?
«Non c’è niente di intoccabile e la letteratura deve sempre rischiare qualcosa, deve “scavare”. Il mio Francesco comunque è una creatura letteraria, e lo “scavo” qui non porta alla luce novità su Francesco dal punto di vista storico, ma – spero – suggerisce al lettore alcune questioni umane, psicologiche, conoscitive che riguardano tutti noi».
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«Nelle prime pagine si avverte una certa affinità con Il nome della rosa di Umberto Eco, se non altro per la forma e l’ambientazione medievale. Poi il romanzo segue la propria strada e la storia, ben strutturata, decolla in fretta. Ti chiedo se ti sei lasciato influenzare da Eco e quali altre letture hanno ispirato i personaggi e la storia del tuo libro?»
«No, Eco non mi ha influenzato. I due romanzi sono molto diversi nella tecnica e negli intenti. Solo nel primo capitolo c’è, sì, una certa atmosfera da “rasoio di Occam” e il topos del rapporto maestro-allievo che vagamente ricordano Il nome della rosa. Tra i modelli – ma ribadisco che questo romanzo non è ispirato a nessun precedente e direi che l’originalità dell’operazione è il punto di forza principale del libro – citerei piuttosto Il quinto Evangelio di Mario Pomilio, La gloria di Giuseppe Berto o, ma si tratta solo di suggestioni, alla lontana, le Memorie di Adriano della Yourcenar, non so, il Ponzio Pilato narrato da Bulgakov ne Il maestro e Margherita…»
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Qual è il tuo rapporto con Francesco d’Assisi e più in generale con la religione?
«Io sono agnostico e fortemente critico verso la Chiesa come organo di potere politico, ieri come oggi, ma le figure di Francesco d’Assisi e, più ancora, quella di santa Chiara mi hanno letteralmente conquistato. Loro sono stati i primi, nell’epoca in cui (come dicevamo prima) il capitalismo moderno nasceva, a contestarne il modello socioeconomico. Le loro posizioni ideologiche sono un misto di (ovvio) fondamentalismo tipicamente medievale e di illuminante, modernissima eversione su tanti temi e tante questioni sulle quali, nonostante i secoli trascorsi, è difficile dire qualcosa di più pregnante, e purtroppo è ormai quasi impossibile per noi mettere in pratica il loro modus vivendi, imitare la loro incrollabile coerenza. Ma almeno dovremmo tentare di ispirarci ai loro insegnamenti. Sono “santi” anche dal punto di vista laico, insomma».
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Questo non è il tuo primo romanzo storico: ci racconti come sei arrivato fin qui, se fai altro nella vita – oltre a scrivere – chi è, insomma, Massimiliano Felli?
«Beh, in un’epoca di sovraesposizione della figura dell’Autore (che spesso diventa un vero e proprio “personaggio”, ed è il personaggio che viene promosso, non il libro) lasciami eludere questa domanda. Bastano le poche righe riportate nella bandella. Però ci tengo a sottolineare che sono presente sui principali social network, non tanto perché abbia voglia di intervenire su ogni questione all’ “ordine del giorno mediatico” quanto piuttosto, ed è l’utilizzo di questi mezzi che mi sembra più bello e utile, perché i lettori che abbiano voglia di scrivermi per commentare il libro, chiedere qualcosa, mandare un saluto, scambiarsi opinioni su altri libri ecc. sono ben accetti e mi fa molto piacere interagire con loro. Perciò: buona lettura… e teniamoci in contatto!»