In “Trio”, nuovo romanzo di Dacia Maraini ambientato in Sicilia durante un lockdown ante-litteram, nel Settecento. Due amiche separate dalla peste e unite dall’amore per lo stesso uomo, il marito di una delle due, si scambiano lettere e restano solidali nonostante tutto. Intervista alla Maraini: “L’immaginazione è il nostro motore più importante. Quando si è felici non lo si sa, lo si scopre sempre dopo. Le donne solidali fra loro e che leggono sono sempre pericolose per la mentalità patriarcale. La candidatura al Nobel? Non ci penso, sono gratificata dai lettori”
Un nuovo romanzo epistolare destinato a conquistare i lettori per i temi eterni che affronta e perché, pur raccontando una vicenda settecentesca, scaraventa dentro un’epidemia, cioè in una dinamica attualissima. Dacia Maraini – cresciuta a Bagheria dai nove ai diciotto anni – torna in libreria pubblicando, con Rizzoli, Trio. Storia di due amiche, un uomo e la peste a Messina (112 pagine, 16 euro). Nel nuovo romanzo si leggono le lettere che fra il 1743 e il 1744 uniscono due donne separate da un lockdown ante-litteram: Annuzza scriverà da Palermo, e presto si trasferirà a Casteldaccia, Agata da Messina (lì il contagio infuria e i monatti raccolgono cadaveri), ma troverà rifugio nella vicina Castanea; le due amiche si confortano, ma si contendono anche lo stesso uomo, il bellissimo Girolamo, marito di Agata e padre di Mariannina.
Maraini, in Trio, racconta giornate monotone, isolamento, e in particolare una città nella morsa della peste. Come ha vissuto l’emergenza Coronavirus?
«Relativamente bene, sono abituata a stare a casa e a scrivere. Mi sono mancati molto il teatro e le cene con gli amici».
La Sicilia torna in una sua opera, dopo La lunga vita di Marianna Ucria e Bagheria. Il suo legame con l’Isola è ondivago, saldo, controverso?
«La Sicilia è sempre presente nella mia memoria affettiva ed estetica. Certo, ora la frequento poco, ma non la dimentico».
Nell’introduzione ricorda anche Vincenzo Drago, editore bagherese, che nel 2006 pubblicò un brevissimo racconto alla base di questo romanzo. Un volto positivo dell’Isola?
«Una bella persona, di cui l’isola può essere orgogliosa. Ha sempre vissuto in una zona mafiosa senza mai piegarsi, il che non è una cosa facile».
Narra di un singolare triangolo, dell’amicizia di due donne innamorate dello stesso uomo, e della loro solidarietà. Plot settecentesco, ma quanto attuale? Oggi c’è una simile solidarietà femminile, capace di andare oltre la gelosia e il dolore?
«Non so quanto le donne siano solidali nella pratica. Importante è che il valore della solidarietà e dell’amicizia passi come un valore fondante, un punto di riferimento. La storia delle donne nel patriarcato è sempre stata fatta di divisione e competizione: la relazione fra due donne, secondo la narrazione dei Padri, non può che essere competitiva e concorrenziale. Divide et impera, come dicevano i romani. E ha sempre funzionato. Il femminismo ha ribaltato questo principio ed è forse la cosa più importante che ha stabilito».
Annuzza e Agata si aggiungono alla galleria delle sue protagoniste. A quale resta più legata?
«Non ho preferenze. Sono due donne che sanno amare, che conoscono le letteratura e la musica, e coltivano l’amicizia».
Trio non è un libro autobiografico, come Bagheria, La grande festa, La nave per Kobe. Quanto c’è di lei?
«Niente. Lo scrittore non può parlare sempre di sé. Ci sono i libri autobiografici e lo dico esplicitamente e poi ci sono i libri di invenzione. Mondi in cui mi appassiona entrare ma in cui non mi identifico».
«Sai che la felicità la si scopre sempre dopo, quando non c’è più. Adesso mi pare che la felicità si nasconda da qualche parte, forse non lontano, ma che sia impossibile da trovare». Lo scrive Annuzza ad Agata. Lo crede anche Dacia Maraini?
«Sì, credo che quando si è felici non lo si sa. Lo si scopre sempre dopo. La felicità , quando è piena, non si racconta, la si vive. Quando si comincia a pensare alla felicità, vuol dire che è passata».
«L’amicizia è eterna, l’amore è fragile, delicato, destinato a morire giovane». Un’altra frase di Annuzza per Agata. Che ruolo hanno nella sua vita l’amicizia e l’amore?
«L’amore è legato al sesso che è esclusivo. L’amicizia, slegata dal sesso, dispone di una libertà unica. Il sesso è destinato a finire, l’amicizia no».
Per le due amiche – leggono a lume di candela grandi autori francesi e spagnoli – la letteratura è balsamo, ristoro, consolazione. Era più semplice ritenerlo nel XVIII secolo? Che speranze ha la letteratura di essere così centrale anche nel XXI secolo?
«Leggere è una pratica di grande libertà. Quando si legge un libro, lo si riscrive e questo mette in moto l’immaginazione che è il nostro motore più prezioso».
Anche Marianna Ucrìa legge, nonostante la sua passione sia osteggiata. Le donne che leggono restano coraggiose, pericolose?
«Sì, per la morale patriarcale le donne che leggevano erano pericolose, cominciavano a pensare con la propria testa e potevano ribellarsi alla loro schiavitù. Ma devo dire con dolore che ancora oggi, in certe parti del mondo, è considerato un pericolo. Ricordiamoci di Malala, ferita in testa da un colpo di pistola, perché voleva andare a scuola, imparare e capire».
Chi è la donna più coraggiosa che le viene per prima in mente?
«Vibia Perpetua, su cui sto scrivendo adesso, una romana di Cartagine, una cristiana che si è fatta condannare a morte per avere difeso la libertà e la dignità delle donne nelle parole di Cristo».
Le scrittrici che hanno vinto il Nobel sono poche. L’Italia non è premiata dal 1997, quando il riconoscimento andò a Dario Fo. I bookmakers puntano su di lei, candidata da oltre un decennio, oltre che su Magris e Ferrante… Non ci fa un pensierino?
«Preferisco non pensarci. Se me lo daranno sarò onorata e felice. Altrimenti pazienza. La più grande gioia viene dai lettori quando apprezzano i miei libri».