Scrittura dolorosa quella di Giovanna Rivero, sottile, drammatica e soprattutto vera. La scrittrice boliviana arriva in libreria con i racconti di “Ricomporre amorevoli scheletri”. Tra dolori, perdite e l’amorevole sguardo che abbraccia ogni cosa
Nelle Lezioni americane Italo Calvino esorta i suoi lettori a vivere senza macigni sul cuore. Il cuore, un muscolo, che esprime forza, luogo in cui risiedono i sentimenti più pulsanti, resta un motore che non può non risentire di strattoni e sbalzi cui lo sottoponiamo. I racconti di Giovanna Rivero, Ricomporre amorevoli scheletri (286 pagine, 16 euro), usciti ora per Gran Via, selezionati da Matteo Lefèvre e tradotti dagli allievi del laboratorio “Tradurre la narrativa breve” organizzato dall’editore, partono tutti da questo scompenso cardiaco. Il cuore dei protagonisti è spezzato, invalido, mutilato, è un cuore ridotto ad uno straccio, perchè al cuore è chiesto tutto. Un muscolo capace di ardere e tratteggiare una mappa, «l’enorme abisso che separa la testa dalla pianta del piede e quest’ultimo dal cuore». Uomini e donne che, nelle loro fragili vite, fanno del cuore e dei sentimenti una personale bussola con la quale orientarsi nelle relazioni umane. C’è chi possiede un cuore spaventato, chi rifiuta un’ideale perchè è la prima cosa che ti priva è il cuore e perchè attraverso di esso è possibile misurare l’unicità delle parole. C’è indulgenza e gratitudine, un cuore roso da un sentimento di depredazione e c’è un passato identitario che fatica a rimanere sotto traccia. «Alla signora Keiko sembra che il cuore si sia trasformato in un macchinario pieno di lame […] Lame che finiranno per fare a pezzi gli organi che le causano dolore: il cuore, lo stomaco, i polmoni, le ovaie. Tutto ciò che ha a che fare con l’amare, il possedere, il respirare, il comprendere e il perdonare».
Spazi esterni e interiori
I personaggi di Giovanna Rivero si distinguono per abitare in se stessi uno spazio esterno ed uno interiore. Spazi desertici, popolati, chiassosi nei quali si muovono i grandi temi che Rivero distribuisce lungo la sua scrittura. Riconducibili allo spazio interno sono il cuore, la fame, la violazione, la maternità; gli spazi esterni coinvolgono le relazioni, l’amore, la follia, il corpo e la morte. Il trait-d’union fra dentro e fuori è la struttura scheletrica che sostiene vita e trascorso, in cui amorevolmente si guarda all’altro per veder riflesso se stesso. Le ossa sono mosse dai muscoli per quanto lo scheletro rimandi immediatamente a qualcosa di finale e sospeso, lo scheletro è ciò che resta di noi stessi, la struttura che ha retto e archiviato ogni singola emozione sostenuta dai nostri organi. Ricomporre questi scheletri è necessario per riconsegnarsi alla vita. Animare il proprio passato è un atto incancellabile; l’ultima consistenza dello scheletro è un cuore pulsante colmo di memoria.
Siamo due rette parallele o, meglio ancora, eravamo due rette parallele fino a che non si è rotto un vettore, si è ridotto in frantumi contro un ginocchio invisibile, si è scheggiato come un osso cristico, ce lo siamo giocato. Tony non ha la minima idea di quanto cazzo sia difficile raccogliere tutte quelle schegge e incollarle con la saliva, ricomporre un amorevole scheletro che possa sostenere questa cosa che chiamiamo vita.
Amorevoli perchè ci appartengono contro ogni tipo di ereditarietà, perchè riassemblare i frammenti umani, tangibili e custodibili è la magia del rinnovamento. Quando sua sorella guarda Saulo vivere come una seconda vita, osserva ossessivamente il suo «amato scheletro» farsi portavoce di una «angoscia secolare sempre in grado di rinnovarsi». Ma gli scheletri sono anche ombre sinistre, custodi di ciò che siamo, sono scheletri di piante, sono gli scheletri di una vita a richiedere di essere sorretti e poi ci sono quelli che richiamano il senso di timore atavico verso l’ignoto «non volevamo restare in casa perché le sagome delle betulle secche sulla parete scrostata della sala creavano scheletri macabri che danzavano verso di me e mi riempivano di terrore».
Tra la vita e la morte
C’è però un dialogo nei racconti di Giovanna Rivero fra la vita, il vitale e la morte stessa, un dialogo sussurrato capace di generare energia tanto che la protagonista di Pelle d’asino sentiva un crepitio smisurato dato da «tutti quegli scheletri» che l’avevano tormentata, «i teschi delle betulle, quelli dei nostri genitori e ora quello di zia Anita». Gli scheletri che danno il titolo alla raccolta richiamano la fisicità di un corpo andato, voluttuoso, feroce, adorabile. È attraverso un corpo che il silenzio di certe parole trova l’espressione più potente. Spesso le protagoniste sono donne silenziate da una maternità negata, artificale, sostenuta dall’accanimento. Sessualità, trasformazione e corpi. Tutto ruota come attratto dal senso di relazione, condannato dal ruolo di figlio che ognuno di loro si porta addosso come tatuato. Allora il movimento più muto e rumoroso rievoca nella protagonista de L’Uomo della Gamba, «un’elettricità madre in quella cavità». Una cavità non sempre adatta a generare vita pur senza sottrarsi dall’alimentarsi di vita pura, un “elisir della gravidanza”, come scrive Rivero. Il dolore della perdita porta con sè una continua “ostinata ferocia del desiderio”. “La crudeltà interiore” di cui la protagonista di nove anni del racconto “Cagne e soldatini” sarà un’eredità inestinguibile per lei che ci riporta ad una dimensione a metà strada fra la realtà e l’elemento fantastico, ribadito dal sogno, dall’illusione e follia di Saulo, ad esempio, che negli occhi rivede un’infanzia delimitata dai contorni traumatici. Personaggi fin troppo umani quelli scelti da Rivero che si affida a un’interiorità di donne e uomini legati dalla solitudine tanto da auspicare un atto estremo pur di entrare in contatto con gli altri, Ramòn accusa la propria compagna di mancanza di reciprocità. “Rimanere da soli con i propri sentimenti non deve essere una cosa facile, per questo preferisco la vocazione, il fanatismo, il sentimento ossessivo e unidirezionale”. È terrore, impulso, solitudine ostinata?
Un doppio legame con la disintegrazione
I corpi di Rivero tessono un doppio legame con la disintegrazione (parola cara a Frida Kahlo), Elise, ad esempio, vuole tornare a sentire il solletico e i polmoni sul punto di esplodere, perchè possa percepire quella vita abbagliante e, allo stesso tempo l’alienazione da stessi. Margarita, protagonista del racconto omonimo, di pirandelliana memoria, attraverso la propria pazzia rivela alla nipote lo sfacelo che ha causato il decadimento di corpo e mente.
Margarita trasudava un dolore putrefatto, una secrezione incorporea che andava ben oltre i problemi neurologici, tra l’altro fin troppo sopravvalutati.
Il suo odore, le sue secrezioni sono vita irresistibile, profanata da una violenza famigliare. Ci sono legami interrotti, parole svuotate di significato, impulsi sessuali non rimandabili e un corpo che esprime se stesso attraverso la fame. «Mi può raccontare com’era la fame che avevate?» […] «Quella fame non si può spiegare a parole». Il corpo chiede di sopravvivere, di andare oltre ai sentimenti e la fame atavica risveglia impulsi animali che credevamo superati. Come quell’istinto primordiale di trovare un luogo in cui affondare le proprie radici che coincid,e con le protagoniste dell’ultimo racconto, Viaggio a Broadway, con la traversata del deserto, superare quel confine che divide Messico e Stati Uniti, un’attrazione fatale per migliaia di corpi ai quali viene chiesto di rimangiare il proprio passato, occultare l’identità e dimenticare per accettare ogni tipo di trasformazione.
Scrittura dolorosa quella di Giovanna Rivero, sottile, drammatica e soprattutto vera. L’abilità di trovare un fantastico perimetro delle esistenze umane da invadere con l’indagine. L’uomo, inteso come essere umano, per Giovanna Rivero è delineato da un taglio perfetto in cui si percepiscono i dolori, le perdite, ma anche la perfidia, l’invidia e infine, la salvezza ultima: l’amorevole sguardo che abbraccia ogni cosa.
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