Un librone giallo e nero come una gigantesca ape occhialuta. Ecco come appare l’autobiografia di Woody Allen, “A proposito di niente”. Le pagine scorrono a velocità straordinaria, dall’infanzia alla carriera. Il lavoro nel cinema diventa la sua vita e la sua vita però va a rotoli…
Come il giovane Holden, non mi va di dilungarmi in tutte quelle stronzate alla David Copperfield, anche se in questo caso i miei genitori magari possono essere un soggetto più interessante del sottoscritto
Così parte l’autobiografia di Woody Allen, A proposito di niente (400 pagine, 22 euro), traduzione di Alberto Pezzotta, La nave di Teseo, un memoir che ha avuto su di me l’effetto di una lunga, piacevole chiacchierata con l’autore su un comodo divano di un luminoso appartamento dell’Upper East Side.
Fra tradizioni ebraiche e attacchi di risate
Nella prima parte del libro Allen racconta gli anni dell’infanzia con il suo inimitabile sense of humor, soffermandosi sugli aneddoti più spassosi riguardanti la scuola pubblica che era costretto a frequentare o le rigide tradizioni ebraiche che la famiglia non mancava di osservare: «Ciondolavano la testa come pupazzi adorando un potere immaginario che, se esisteva, ripagava tutti i loro salamelecchi con il diabete e il reflusso gastrico».
Le pagine scorrono a una velocità straordinaria provocando improvvisi attacchi di risate, il che è sempre un bene, o no? Leggendo assistiamo alla nascita di un “comico” dall’inesauribile repertorio; lui scrive pezzi per altri comici, scrive per sé, calca i palcoscenici di una New York anni ’50 più scintillante e fascinosa che mai, recita, dirige, vince premi, il suo lavoro diventa la sua vita e la sua vita però va a rotoli.
Ripensando ai suoi film
L’incontro con Mia Farrow si rivelerà un’arma a doppio taglio che, come spesso accade con eventi importanti nella vita di ognuno, finirà per diventare il “prima” e il “dopo” di ogni scelta dell’artista, un giro di vite che finirà per gettare Allen in un incubo senza fine. Non entrerò nel merito perché penso che le faccende personali debbano appunto rimanere tali. Leggere la sua biografia mi ha fatto venire voglia di rispolverarne qualcuno e mi ritrovo ad emozionarmi ancora ascoltando il monologo iniziale di Manhattan, la più bella dichiarazione d’amore: «New York era la sua città, e lo sarebbe sempre stata». Sono stata e sono tutt’ora una grande appassionata dei suoi lavori, amo soprattutto la sua produzione anni ‘70/80, i film con Diane Keaton in particolare, ma anche i più recenti come Midnight in Paris o Basta che funzioni, anche in questo caso l’avvio è già di per sé un piccolo capolavoro di umorismo: «Cazzo! Se devo mangiare nove porzioni di frutta e verdura al giorno per vivere, non voglio vivere. Io detesto la frutta e la verdura e i vostri omega tre e il tapis rulant e l’elettrocardiogramma e la mammografia e la risonanza pelvica o mio Dio… la colonscopia! E con tutto ciò arriva sempre il giorno in cui vi ficcano in una scatola, e avanti con un’altra generazione di idioti».
Che dire, ho portato questo bel librone giallo e nero come una gigantesca ape occhialuta in giro con me per giorni, ci sono finite briciole di biscotti tra le pagine, ho sottolineato storto, ho fatto le orecchie quando non trovavo più il segnalibro, mi ci sono anche addormentata sopra spiegazzando irreparabilmente la copertina, poi mi sono svegliata e ho scritto questa cosa qui.