Ritratto del poeta marsalese, tra i maggiori contemporanei, nato oggi nel 1950. Nino De Vita, restituendo una puntuale onomastica a una Natura dimenticata dall’uomo offesa, non migliora la realtà, non la rende meno crudele, ma le permette di vivere e di essere vissuta
Sulle pagine del Messaggero del 1° maggio 1985, è Giovanni Raboni a tenere a battesimo la poesia di Nino De Vita. In una recensione che raccoglie i migliori albori letterari del momento, dopo aver parlato di Gabriele Frasca, Milo De Angelis e Dario Villa, alla fine, il critico e poeta milanese decide di chiudere il suo intervento con Fosse Chiti, la prima raccolta in versi di De Vita: «Dei quattro autori compresi in questa rassegna, De Vita (che è nato a Marsala nel 1950) è infatti l’unico del quale mi sentirei la coscienza tranquilla limitandomi a dire: mi piace».
Rifondare la realtà
Quel “mi piace” di Raboni non suona affatto come l’algido e frettoloso “like” a cui ci hanno abituati i social network, esprime piuttosto l’ineffabilità del lettore di fronte al fascino inatteso di una silloge. Il recensore, inoltre, riesce a intuire un carattere che segnerà tutta la produzione futura dell’autore marsalese: la precisione; parla di una «sommessa, incantevole, inspiegabile, precisione». Non avrebbe potuto trovare aggettivi migliori per descrivere l’acribia lirica di De Vita che, ricordando e restituendo una puntuale onomastica a una Natura dimenticata dall’uomo e spregevolmente offesa, rifonda di continuo, poesia dopo poesia, la realtà che lo circonda. Non la migliora, non la rende meno crudele, ma le permette di vivere ancora. Di essere ancora vissuta.
Scavare in profondità
Il passaggio dalla lingua italiana al dialetto della sua contrada d’origine, l’ormai leggendaria Cutusio, non muta il suo proposito poetico, ma gli offre degli strumenti diversi. Una “vanga” nuova per scavare più in profondità, per entrare maggiormente dentro le cose. Questa immagine dell’uomo che scava mi viene suggerita da un poeta che assimilo con facilità a De Vita, mi riferisco a Seamus Heaney e in particolare alla sua raccolta d’esordio, Morte di un naturalista.
Ricostruire l’idillio uomo-Natura
Entrambi figli di un’operosa progenie contadina, decidono di dismettere la fatica dei campi per sobbarcarsi il ruolo – non meno gravoso – del racconto («Tra il mio pollice e l’indice riposa/ la tozza penna./ Scaverò con questa»). Un racconto che oggi appare ominoso, e mai rassicurante, che mette in guardia tutti sul nostro futuro: se non riusciamo a ricostruire quell’idillio tra uomo e Natura, sarà inutile continuare a nutrire speranze per il domani. Perché non avremo più un luogo, tranquillo e sicuro, dove poter continuare a sognare.
E come insegna il vocabolario della lingua di Cutusio, i lòcura (“i luoghi”) e i sònnura (“i sogni”) sono legati dallo stesso destino lessicale.
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