“Le cose da salvare” di Ilaria Rossetti è un romanzo che punta dritto al tema della perdità, alla sua universalità. Il crollo del ponte Morandi di Genova è un pretesto letterario in cui l’autrice – con una lingua che sperimenta lirismi e dà vita a immagini vivide e poetiche – dà voce alla storia di un ex insegnante che non vuole abbandonare la casa nei pressi del disastro e di una giornalista chiamata a intervistarlo. Tra superstiti e oggetti sopravvissuti…
Una lingua intensa, una scrittura profonda capace di costruire intorno all’immagine drammatica di un ponte spezzato due storie a loro modo parallele, che si intrecciano per un tratto del cammino specchiandosi, interrogandosi, riconoscendo le rispettive cose da salvare. Questo il nocciolo dell’esordio letterario di Ilaria Rossetti, Le cose da salvare (202 pagine, 17 euro), premio Neri Pozza 2019 edito dalla medesima casa editrice. È un romanzo che, come solo la scrittura di qualità – lavorata e consapevole – sa fare, ha tratto linfa da una cronaca bruciante ancora impressa nelle retine di tutti, il crollo del Ponte Morandi di Genova e la sua scia di morte, e ricostruendo una storia finzionale ha saputo dare voce al silenzio attonito che ha caratterizzato il 2020 della pandemia e del “tutti a casa”.
Ponti, case e visionarietà
Al centro di questa storia c’è infatti una casa, un edificio superstite tra quelli che, nell’immaginaria via dei Bastioni, vicino al fiume Polcevera che scorre sotto alla voragine del Morandi, sono stati demoliti dai vigili del fuoco dopo essere stati evacuati. Siamo a Genova, la città è una presenza nitida, eppure né lei né il nome del ponte vengono mai menzionati: quel dramma è solo scusa letteraria per un romanzo che punta dritto al tema della perdita, alla sua universalità.
Ecco dunque che intorno al simbolo potente del ponte spezzato, a quella voragine spalancata sulla fine irrimediabile, si inserisce la storia di Gabriele Maestrale, colui che è rimasto. Un superstite, un resistente: tenacemente attaccato al suo appartamento, l’ex professore di matematica in pensione ha deciso di non evacuare, e dal suo appartamento non si è più mosso. Bloccato dentro casa. Difficile non leggere una metafora della quarantena che segnerà per sempre il 2020 in una condizione che pure è soltanto una finzione letteraria. Ma le parole vedono oltre, le parole sanno, e quelle di Ilaria Rossetti esplorano la casa come guscio protettivo, centro dell’individuo, pavimento che garantisce senso, appartenenza, che dà identità.
Il ponte e il suo crollo hanno cambiato tutto nelle apparenti stabilità di tante vite: è così che Gabriele rifiuta di andarsene, lasciare il passato, salvarsi. Si rifugia in casa, dentro i confini stretti e pericolanti della sua vita intera con cui fare i conti e da cui imparare a congedarsi, prima o poi.
La lista delle cose da salvare
E poi arriva Petra, giornalista trentenne incaricata di intervistare Gabriele. Tra i due inizia un dialogo che piano piano si amplifica, e che non smette di ruotare intorno a una domanda fondamentale: quali sono le cose da salvare? Davanti a quel ciglio di asfalto spezzato che tutto ha stravolto, e che spaventa e blocca l’agire, cosa dovremmo portare con noi tra gli oggetti legati alla nostra esistenza, e cosa decidere invece di abbandonare?
Tra Petra e Gabriele si intersecano i percorsi di risoluzione e mancata risoluzione della perdita. Mentre Gabriele non trova risposte e si arrende a una rinuncia, la storia parallela di Petra è invece una ricerca, e scandaglia tra un presente segnato dalla morte della madre e da un nuovo assetto familiare all’orizzonte, e un passato foderato di infanzia e certezze via via venute meno. Ogni flashback attinge a quel baule di traumi, scoperte e percezioni quasi impalpabili che ci strutturano, e che non ci chiedono mai il congedo, nemmeno a trent’anni, quanti ne ha Petra che ammette: «chiudendo gli occhi, la mia infanzia mi abita».
Il senso di perdita si fissa ad alcune scene: l’irruzione inaspettata della morte, la perdita dei nonni, lo sgretolarsi delle certezze che formano i mattoni della vita di ciascuno. Petra le trapassa. Petra non è un nome casuale: la pietra fonda, la pietra sta alla base, non crolla. Ed è infatti inversa la rotta della ragazza rispetto al superstite di via dei Bastioni: è un’analisi che non si lascia abbandonare, che tiene acceso il rovello, vuole arrivare a una risposta, a un patteggiamento con gli agguati che la morte e la perdita le hanno scavato dentro. Vuole stilare l’elenco delle cose da salvare.
Salvare alcune cose, le prime che vengono in mente, significa che sono le più necessarie. Delle altre si può fare a meno: si chiama sopravvivenza.
Due sopravvivenze
In questo romanzo di Ilaria Rossetti è duplice il percorso di salvezza, quello di Petra e quello di Gabriele, ma lo sono anche le storie ausiliarie che prendono vita intorno alla storia della palazzina pericolante. C’è il padre della ragazza, rimasto da poco vedovo, che cerca di non sottrarsi alla possibilità di un vecchio amore arrivato alla porta per sostenere la perdita. E ci sono due ragazze eritree, Ima e Jala, sfuggite ai controlli e finite ad abitare nel palazzo da abbattere, tenute nascoste e protette da Gabiele, con il quale formano un inedito insieme di inquilini sul limitare della vita e delle possibilità.
Nelle case abbandonate si respira così ancora vita, vita nuova che si somma a quella ormai impolverata, lasciata alle spalle. Ci sono oggetti, frammenti, tessere, sono i ricordi, quelle cose un tempo vive, credute forse immortali a causa del pregiudizio di sopravvivenza insito nell’uomo: si guarda alle cose sopravvissute, non a quelle perdute.
Gabriele e Petra si concedono sguardi indietro alle cose andate: l’autrice li coglie in una ricerca sospesa tra un non più e un non ancora. È così anche per il padre e il suo antico amore, è così per le due ragazze immigrate. Per tutti c’è una sospensione, racchiusa nell’immagine del ponte spezzato. È la distanza tra il tempo del prima e l’adesso franato, ed è una scelta inclusa nel pacchetto del diventare grandi con cui Petra, rientrata da Londra dove si destreggiava in esperienze lavorative anonime, dovrà scendere a patti. C’è infatti il vuoto anche in quel movimento generazionale che ha portato tanti trentenni a cercare fortuna altrove, allontanandoli spesso inesorabilmente dalla vita che scorreva “nel posto giusto”, in quella casa oggi abbandonata dove abita il segreto delle cose da salvare.
Lo strappo della lingua
Crolli e movimenti, riflessioni e percorsi non sono mai piatti in un romanzo che fa della lingua una delle sue caratteristiche più vivaci. Nella scrittura sicura di Ilaria Rossetti il ponte che crolla è infatti un «vortice di aria e calce», e la distruzione è così insensata e assurda da essere «farneticante», tanto che il crollo diventa «un monsone di polvere insanguinata e limacciosa, uno strappo nel pianeta».
È una lingua che scarta continuamente dalla strada pianeggiante per sperimentare lirismi e dare vita a immagini vivide, poetiche. Strappi improvvisi verso l’inedito e accostamenti con l’inconsueto connotano una ricerca di immagini mai piatte, mai scontate, e rendono la scrittura molto potente, visionaria forse, come tutto questo romanzo riesce a essere con una grazia che è insieme precisione e sguardo allargato sulle cose del mondo.
E se un’ora diventa «terribilmente egocentrica, come gli inverni nelle città di mare che non sanno fare pace con la mitezza delle correnti» e la stanchezza può farsi «oceanica: di cose che stanno per finire, di persone che stanno per salutare», la ricerca di un appiglio in mezzo alla caduta nel vuoto non potrebbe che essere una scelta legata allo scarto. Scarto nella consuetudine linguistica, salto nel mondo delle metafore; scarto dello sguardo, chiamato a riposizionarsi sulle cose e sul mondo, per leggere così il senso autentico del restare.
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