Lo strano e originale romanzo di Ófeigur Sigurðsson, Jón, ambientato in Islanda, si compone delle lettere inviate da un reverendo, bloccato in una grotta, alla moglie incinta: la straripante potenza naturale di un universo primordiale e variopinto è resa in una narrazione eclettica, fra parole evocative, rimandi e tanta ironia
Storia, amore e vulcani, così si potrebbe riassumere in tre parole chiave lo strano e originale romanzo di Ófeigur Sigurðsson, Jón, solo un’abbreviazione per un titolo mirabolante che, completo, suona come Jón & le missive che scrisse alla moglie incinta mentre svernava in una grotta & preparava il di lei avvento & dei nuovi tempi (208 pagine, 18 euro). Lo pubblica Safarà, editore che porta in Italia, con la traduzione di Silvia Cosimini il vincitore del Premio Europeo per la Letteratura 2011 firmato dal poeta e scrittore islandese Ófeigur Sigurðsson, classe 1975, nato a Reykjavík.
Sotto i cieli di Islanda
Siamo nel 1775 quando ha luogo questa storia. È l’anno di un grande cataclisma naturale, quello che riguarda il vulcano Katla, colto nella sua più violenta eruzione sull’isola del ghiaccio e della lava chiamata Islanda. Insieme a Hekla, come ben raccontava Leonardo Piccione nel suo Libro dei vulcani d’Islanda (ne abbiamo scritto qui), Katla è uno dei vulcani più pericolosi dell’isola. Oggi muto, potrebbe tuttavia eruttare da un momento all’altro e il risultato sarebbe terribile. I vulcani sono infatti i protagonisti supremi dell’isola e di questa storia ambientata nel passato.
Bloccato in una grotta nel sud dell’Islanda dopo essere fuggito dal capo opposto dell’isola, a nord, con il fratello e aver abbandonato moglie e figlioletto da venire, Jón descrive l’affascinante disastro naturale attraverso le sue “missive”. È dalle lettere che apprendiamo dell’eruzione e dei suoi effetti secondari come lo scioglimento dei ghiacci e la nube di polvere nera che ammorba l’aria. Non potrebbe del resto esserci osservatore più acuto di un traduttore di testi teologici e scientifici che è però al contempo avvinto dal talento artigiano del fratello nei lavori domestici e di caccia: Jón osserva tutto, e lo descrive con efficacia cromatica, palpabile.
Forse perché sarebbe impossibile non restare avvinti dallo scatenarsi delle forze della terra: cenere, neve che si scioglie, ghiaccio che travolge la pianura alluvionale, il sandur, e fuoco, dal rosso della lava al blu ondeggiante dei fuochi fatui. C’è tutta la stravolgente potenza naturale dell’Islanda nel racconto, e non potrebbe essere altrimenti.
È opinione di tutti che mai si sia verificata un’eruzione tanto potente in precedenza, che mai prima si sia deposto un tale deserto di sabbia nera sulle campagne, e che mai i fiumi si siano riempiti con tanta veemenza. L’incessante vento di burrasca sposta il grosso della cenere verso oriente su Tunga e Siða.
Il Pastore del fuoco
Il Jón di questo romanzo è Jón Steingrímsson, noto come “Pastore del Fuoco”, un personaggio realmente esistito e caro agli islandesi perché, narra la leggenda – una delle numerose che si incontrano nella storia e nella tradizione di questa terra estrema – nel 1783 riuscì a fermare una colata di lava che incombeva su una chiesa, bastò celebrare una messa all’interno. Visse in epoca illuminista, nel ‘700, e di tale epoca fu un figlio, pastore d’anime e medico, letterato, che era solito aggirarsi per l’isola curando persone con pozioni, impacchi e unguenti le cui ricette traeva delle sue letture appena giunte dal centro dell’Europa.
In questa storia lo si trova costretto a lasciare la moglie moglie Þorunn, incinta, al nord per fuggire dalle accuse ingiuste di aver ucciso il suo precedente marito. Siamo tra il 1755 e il 1756, è inverno, ed è incorso una terribile eruzione. Jón non può che attendere, ingannando il tempo tra le attività quotidiane per la sopravvivenza, il cibo, le letture e le traduzioni, le lettere alla moglie lontana dove racconta di sé, del futuro che li aspetta e che presto arriverà, oltre la catastrofe e la distruzione, e degli incontri con alcuni personaggi a volte bizzarri come il sindaco Skùli, che ribadisce la necessità di rendersi indipendenti da Copenaga, ovvero dalla Danimarca, gli scienziati Bjarni ed Eggert, appassionati e curiosi di tutto, e ancora i girovaghi Jón Fagotto preso per un troll e Kristófer, che si sposta col figlioletto in spalla. È un mondo variopinto, ma proprio per questo è perfetto per la narrazione di Jón, eclettica come uno spruzzo di lapilli vulcanici.
Tra poesia e vulcani
Vulcanica non è infatti solo l’essenza di questo romanzo la cui storia prende forma in mezzo a un disastro naturale, ma è anche, forse proprio per questo, la scrittura che si snoda per lettere e racconti personali. Un intarsio di rimandi, sapientemente trasportati in italiano da Silvia Cosimini, che ondeggiano tra la poesia e un’originalissima ironia che rende il personaggio vivo, moderno e complesso.
Tratto ricorrente di tanti autori di narrativa islandesi tra cui lo stesso Sigurðsson, già poeta, la lirica è probabilmente connaturata alla dimensione geologica ed esplosiva della terra, alla sua forza incredibile e superiore. Impossibile non farsi stregare dall’energia devastatrice del vulcano, non provare a trovare le parole più evocative ogni volta disegnate su fenomeni che spaziano dal fuoco al ghiaccio, dalla terra che trema all’aria che si fa irrespirabile. Un universo primordiale, indomabile e feroce, sconvolto dal vulcano che apparentemente tutto cancella e tutto impedisce, «non è facile avventurarvisi con la penna», confermerà il protagonista.
Facile invece, quasi immediato, plasmare questa storia sull’oggi: bloccati in casa per la pandemia come Jón chiuso al riparo nella sua caverna, guardando tra l’affascinato e lo speranzoso il futuro che verrà, “l’avvento & i nuovi tempi”.
Son tempi amari, Þórunn, tu a Frostastaðir, io a Hellar, tra di noi gli altipiani intieri, il Katla sputa per aria le viscere di questo deserto, tanto che solo in Dio potremo unirci sovrastando la vastità smisurata.
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