Una piccola comunità del Wisconsin, un nonno, un nipote e una setta religiosa. Nickolas Butler con il suo ultimo romanzo “Uomini di poca fede” trascina il lettore nei suoi territori geografici e umani. Non è un semplice cantore degli States più profondi, narra le avversità della quotidianità in modo universale, squarcia per bene il rapporto padri-figli, i dubbi della fede religiosa
Padri e figli, profondissima provincia yankee e fanatismo religioso. Senza abiurare, anzi vivificandoli ulteriormente, il proprio passo lento e la celebrazione della quotidianità, Nickolas Butler aggiunge un altro tassello al mosaico dell’universo narrativo che pazientemente costruisce, libro dopo libro. Fra malinconia, dolore e contraddizioni lo scrittore statunitense consegna un’America complessa e di cui non si può fare a meno anche col suo titolo più recente, edito da Marsilio, Uomini di poca fede (271 pagine, 17 euro), affidato per la traduzione a Fabio Cremonesi (che ha contribuito alle fortune di Kent Haruf targato NN), dopo che i primi tre libri erano stati firmati, nella versione italiana, da Claudia Durastanti.
Un uomo e parecchi dolori
Nelle pagine di Butler si respira sempre il Wisconsin, in cui ha deciso di vivere. I luoghi in cui la velocità di qualsiasi cosa è ridotta, e il tempo sembra essersi fermato a parecchi decenni fa, fanno da sfondo a un vicenda che affonda le origini in un fatto di cronaca poi piegato alle esigenze della narrazione. Ne vien fuori la piccola storia di un uomo semplice e della sua quotidianità (tra un frutteto e gli amici di sempre, una piccola comunità che lo abbraccia), Lyle Hovde, che attraversa parecchi dolori assieme dalla moglie Peg (una di quelle donne che «alla fine di ogni giornata rimettevano insieme i pezzi, dopo essersi preoccupate che in casa tutti si lavassero la faccia e avessero la pancia piena, e che le paure di ciascuno si placassero o svanissero»), dalla malattia di un caro amico, il pacifico Hoot, alla separazione forzata dall’adorato nipote Isaac, all’origine delle sue sventure, la morte precocissima di un figlioletto, a nove mesi. Shiloh, la figlia adottiva, sebbene da sempr problematica, sembra avergli restituito una fetta di vita, specie con l’arrivo di Isaac. Ma gliela sottrae di nuovo quando la ragazza si invaghisce di un predicatore, Steven, metà guida e metà imbonitore di una setta religiosa, impedendogli di vedere il bimbo che, a detta del fidanzato della madre, avrebbe poteri taumaturgici, un guaritore che non deve frequentare il nonno ateo…
Un finale non conciliante
Con prosa sempre più asciutta ma lirica (che era ancora più accentuata nei racconti country di Sotto il falò, pubblicati sempe da Marsilio un paio di anni fa) Butler sa restituire dubbi e silenzi, sa ben pennellare strade di polvere e fattorie, i solchi sui campi e nelle anime dei protagonisti, la fede ondivaga dei vari personaggi e quella ferita di Lyle, la sua paura del tempo che scorre, la sua irruenza, la sua dolcezza. Nelle avversità e contro il fanatismo, l’anziano fa ricorso all’umanità e alla generosità quali punti fermi, alla delicatezza nell’ordinarietà: speranza e malinconia si mescolano alla determinazione, prova perfino a fare i conti col mondo del radicalismo, se è un modo per comprendere la figlia; i figli, sembra di capire e magari tanti lo hanno sperimentato sulla propria pelle, non hanno contezza di come i genitori possano continuare ad amarli, anche dopo gli sbagli più incredibili. Non conciliante e non indulgente è l’epilogo, inesorabile per certi versi, ma che conferma Butler scrittore vero, ben al di là dello stigma di cantore degli States più profondi.