Stati di grazia e creatività alternati a tormenti e alienazioni. La dipendenza dall’alcol, i ricoveri, i dolori, la scrittura di libri aperti, la tensione fra geometria narrativa e smisurata dimensione emotiva. Un viaggio nell’universo di Marguerite Duras, autrice de “L’amante”
Scoprii la prosa di Marguerite Duras all’età di vent’anni. La musicalità del suo fraseggio, la scrittura ellittica e in continuo divenire, la tensione tra la geometria narrativa e la smisurata dimensione emotiva. Quelle pagine incendiarie mi travolsero e non mi abbandonarono più.
Il suo modo di affondare la lama della scrittura nel dolore del ricordo, di recuperare l’irrecuperabile, di dire anche ciò che risulta difficile raccontare, il tutto attraverso una lingua che si trasforma, trascendendo la sua stessa essenza: tutto questo mi spinse, nel tempo e negli anni, a scavare nei suoi interminabili dolori, andando al di là della parola scritta, per tentare di afferrare il suo io, quello che affiora tra le intermittenze mnemoniche e nei momenti di grande estasi creativa durante i quali Marguerite sapeva essere se stessa, spogliandosi di tutto, attraverso la scrittura.
L’anima chiede salvezza
Partendo dalla lettura de L’amante, mi tuffai nell’universo durassiano. Il mio fu un percorso a ritroso, se così vogliamo chiamarlo: partendo dal dolore dell’ultima Duras cercai di carpire la radice del suo male o la sua essenza. Tra letture e sospensioni, continuai con tenacia e ostinazione il viaggio nella scrittura durassiana nonostante le difficoltà sottolineate dalla stessa scrittrice secondo la quale: “Un livre est difficile à mener vers le lecteur, dans la direction de sa lecture”. Nonostante questa difficoltà, lei non ha mai avuto “paura della paura di scrivere” (“…certains écrivains sont épouvantés. Ils ont peur d’écrire. Ce qui a joué dans mon cas, c’est peut être que je n’ai jamais eu peur de cette peur-là”) e questa è stata la sua forza.
Per capire l’universo attorno al quale ruota la recherche durassiana sono partita dagli anni dei ricoveri ospedalieri, dalla disintossicazione da alcolismo, dalla psichiatria. È in quei momenti che l’anima chiede salvezza per non finire nell’oblio eterno dal quale non c’è ritorno.
“S’il y avait Dieu, on ne serait pas alcoolos”. È la confessione di Duras a Laura Adler, nel 1987. Un grido, intenso e accorato, che frange il muro di silenzio sulla disintossicazione per l’abuso di alcol. Tuttavia, le prime confessioni della scrittrice al riguardo risalgono ad alcuni anni prima, intorno al 1984, proprio l’anno che coincide con il grande successo di pubblico e critica raggiunto attraverso la pubblicazione dell’opera L’amante (in Francia edito da Les Editions de Minuit, in Italia edito nel 1985 da Feltrinelli). Il 1984 è anche l’anno del premio letterario Goncourt per lo stesso libro. A Laura Adler (profonda conoscitrice anche di un’altra famosa Marguerite francese, la Yourcenar) Duras racconterà, a proposito dell’abuso di alcol, che «c’est lié à Dieu… ça pallie un manque essentiel, qui n’est pas un manque de compagnie du tout, qui est un manque d’ordre essentiel». L’uso di alcol come dipendenza è un gesto da rimandare, stando alle parole di Marguerite Duras, alla compensazione di una mancanza, che non è mancanza di relazioni, quanto una mancanza interiore e più profonda.
Una molteplice mancanza fatta di solitudini
La mancanza nell’universo durassiano la ritroviamo declinata in molte forme e in molti aspetti. È una mancanza fisiologica, è una mancanza sociale, è una mancanza emotiva. È una mancanza fatta di solitudini. Le molteplici solitudini dei suoi molteplici io. Duras non è mai la stessa, nella vita così come nei suoi romanzi. La scrittura è riscrittura: per Duras questo processo creativo lo vediamo proprio con L’amante. La storia trascende se stessa. I ricordi, gli aneddoti e la memoria tutta, ciò che troviamo condensato nel libro viene poi trasfigurato per creare una nuova narrativa, un nuovo paesaggio emotivo con il libro L’amante della Cina del Nord. La storia raccontata attraverso gli occhi di lei che non è più lei. Ecco che la scrittura si trasforma, animata da un dolore nuovo, vita che si aggiunge alla vita.
La scrittura (e l’autobiografia) per Marguerite Duras non è puro racconto degli eventi della sua infanzia e della sua adolescenza nell’Indocina francese prima di approdare a Parigi o della sua inquietudine nella capitale francese ma è una commistione di sensazioni, di immagini uditive, di ricordi che fanno capo ad un processo di riscrittura della sua vita e di alcuni momenti in particolare (i quali diventeranno un’ossessione che non l’abbandonerà mai). Duras riscrive e ristruttura i suoi libri; gli stessi personaggi e persino la storia cambiano, talvolta, i connotati iniziali e diventano altro da sé. Del resto, è proprio Marguerite ad affermare di fare dei libri aperti, delle proposte, delle strutture nelle quali il lettore possa far scivolare il proprio libro.
Dalle ceneri la rinascita
Scrivere per Duras è anche riprende le redini della sua storia, come se la scrittura restituisse la memoria o potesse riscrivere la verità degli accadimenti. Come se la scrittura servisse per ripartire, distruggere per ricostruire. Dalle ceneri la rinascita: questo è il pensiero che emerge dal libro Détruire, dit-elle, edito parecchi anni prima de L’amante, precisamente nel 1969: «Dans “Détruire”, j’essaye de situer le changement de l’homme, le stade révolutionnaire, au niveau de la vie intérieure. Je crois que si on ne fait pas ce pas intérieur, si l’homme ne change pas dans sa solitude, rien n’est possible». Un cambiamento che si genera dalla solitudine dell’uomo, intesa come momento di profonda conoscenza del proprio io.
Il viaggio nell’universo durassiano continua sulle note delle aspettative e dei desideri di Duras ma soprattutto sulle note della sua scrittura carnale, appassionata, avvolgente. Nei libri e nelle sceneggiature che caratterizzeranno gli ultimi vent’anni della sua vita ritroviamo il dolore durassiano.
La produzione proficua e i profondi momenti di esplorazione creativa, immensi e prolungati stati di grazia nei quali Duras è immersa totalmente si alternano a lunghe alienazioni dal quotidiano, al suo costante tormento di non riuscire ad entrare in contatto con l’altro.
In questo dualismo intravediamo una Duras riflessiva che, in un’intervista per Le Magazine Littéraire alla giornalista Aliette Armel, dirà: «j’ai vécu la réel comme un mythe».