“La grande stagione” di Paolo Ruggiero si dipana come un “Chronicle Play”, una scrittura di tipo diaristico con le mosse, i tic e il linguaggio giovanile della cosiddetta generazione Erasmus. Il lettore segue il protagonista autobiografico nel suo peregrinare nelle varie età della sua vita…
Immaginiamo il cielo smozzicato sopra i tetti di Bologna intravisto magari da sotto i portici della zona universitaria, o dalla finestra di qualche appartamento per studenti, quei luoghi che Livio, il protagonista de La grande stagione (313 pagine, 19,50 euro) di Paolo Ruggiero, edito da Castelvecchi, ha frequentato durante gli anni dei suoi studi nella città felsinea, oppure immaginiamo il cielo di Milano dove dopo la laurea si reca per trovare lavoro e fare finalmente ingresso nel mondo adulto dalla porta principale, quella Milano dove «l’inquinamento ha un effetto plastico sul sistema respiratorio» «tra le nuvole color alluminio» con quella «luce afflitta, senza mordente», «con quell’aria che ti si appiccica addosso come un film di cellophane che viene steso sui bronchi da un imballatrice per proteggerli dall’inquinamento stesso», immaginate Parigi con il suo cielo «lourd, pesante» dove «sopra i tetti campeggia retorico e severo, color pozzanghera» con le sue «nuvole veloci dalla base scura, brani di celeste che si aprono e si chiudono, come un otturatore», immaginate infine la luce abbagliante di un’isola del Mar Egeo invasa dai gatti, con il suo paesaggio brullo e la profondità dell’azzurro del mare, lo stesso azzurro che risalta in varie gradazioni nella bella copertina del libro, come il dettaglio di un quadro di Monet.
Scrittura e fotografia
Anche difettando il lettore di una memoria prettamente fotografica, il romanzo di esordio di Paolo Ruggiero viene in soccorso. La Grande stagione è infatti, un libro molto fotografico, nella convinzione dell’autore stesso che vedere le cose con uno sguardo fotografico porti a raccontarle meglio, a trovare sintesi e equilibrio anche nella scrittura che insieme alla fotografia sono dei preziosi espedienti per non lasciar fuggire via emozioni e ricordi. La galleria di immagini del sito internet dell’autore, che infatti tocca molti dei luoghi citati nel romanzo, può essere un valido book fotografico di accompagnamento alla lettura, in ossequio alla formazione del suo autore, giornalista, fotografo e ora possiamo dire anche scrittore, il quale in questa prima prova di esordio mette proprio la narrazione al servizio del dato particolare, fisico, atomico, corpuscolare della luce e degli scorci che questa illumina narrandoci l’educazione sentimentale del protagonista Livio, studente in scienze politiche a Bologna, proveniente dall’estremo nordest italiano, poi assunto nella stessa città in un’azienda di web marketing che si occupa guarda caso di fotografie a scopo turistico, per poi trasferirsi a Parigi e infine la Grecia, lo splendore del Mediterraneo nel periodo sabbatico di Livio, prima della nuova Grande Stagione, un età di passaggio, come in fondo tutte lo sono nella vita di ognuno, in questo caso alla soglia dei trent’anni con tutte le promesse che ancora sembra pararsi di fronte.
Autofiction dell’expatrié e indagine sul padre
Il romanzo si dipana come un “Chronicle Play”, una scrittura di tipo diaristico di poco più di trecento pagine che corrono via spedite con le mosse, i tic e il linguaggio giovanile della cosiddetta generazione Erasmus. Un libro diviso in tre parti, prima, seconda e terza, senza tanti fronzoli, una narrazione fresca e godibile che è da ritenere lecito definire un’autofiction, in una prima persona focalizzata nella presa diretta sulla vita e gli incontri del protagonista e un andamento smaccatamente paratattico, in alcune fasi con un ritmo tambureggiante, percussivo, quasi rappeggiante e allo stesso tempo lirica ed evocativa, con il bell’espediente delle interlocuzioni in francese che danno un surplus di musicalità al racconto dell’expatrié Livio, alias l’esule parigino Paolo Ruggiero.
È bello seguirlo nel suo peregrinare nelle varie età della sua vita a ridosso dell’immediata gioventù, quando tutto appare possibile e allo stesso tempo incerto. La prima persona della narrazione permette un’immedesimazione nelle sue evoluzioni, nei suoi incontri sessuali narrati con dovizia di particolari. Sesso istantaneo e consumato con voracità, come scariche di adrenalina che devono erompere dagli argini, come incontri di boxe, mosse e strategie comprese che sono un periodico intercalare nel racconto di Livio con il quale ci sembra un po’ di camminare assieme, vivendo con lui anche il costante ritorno del trauma, il rievocare con la precisione analitica del linguaggio aeronautico, tramite una corrispondenza via e mail intrapresa con le varie persone che sono venute a contatto con suo padre, per indagare le cause dell’incidente aereo nel quale questi, pilota acrobatico ha perso la vita, quando Livio lui era ancora un bambino.
La Grande stagione di Paolo Ruggiero è un’educazione sentimentale che più che assomigliare a quella del Frédéric Moureau flaubertiano, ha tinte vagamente bukowskiane nella sua declinazione erotica, benché in questo caso non ci siano corse di cavalli e whisky e nemmeno il celebre nichilismo di Henry Chinaski, ma uno sguardo comunque aperto verso il futuro, come testimonierà in pieno il capitolo finale nel quale sembra anche intravedersi l’amore o quantomeno la sua possibilità, in modo ammiccante, come non lo era mai stato nell’intera narrazione. Romanzo vagamente tondelliano anche se depurato da quel vitalismo anticonformista e “politicizzato” dei libertini del compianto Pier Vittorio e più virato in questo caso a una ricerca interiore del protagonista intorno a nodi privati irrisolti, come la vicenda della ricerca sulla morte del padre testimonia.
L’amoreggiamento con i luoghi
Il romanzo è anche un atto d’amore verso i luoghi: verso Bologna in primis, la Bologna universitaria, quella degli studenti provenienti da tutta Italia, delle tante ragazze dal sud venute lì a studiare e che sembrano per il protagonista tante margherite da sfogliare, il sesso come scoperta della vita, la Bologna delle osterie, degli appartamenti in affitto:
«Bologna paese dei balocchi, peschiera pescosa, Bologna come fosse una festa che può durare anche dieci anni», la Bologna universitaria «gli studenti in pausa con lo smartphone: applicazioni colorate, spensierate, Scoppiettano tra le dita come pop-corn, Come se il pensiero oggi volesse seguire percorsi opposti. Non più carotare, andare a fondo, cercare le crepe, ma evaporare, con l’allegra spensieratezza dell’azoto dissolversi tra le nuvole, assieme a pastiglie colorate».
L’amoreggiamento con i luoghi continua con Parigi, seguendo il percorso e l’educazione di Livio che si trasferirà per lavoro nella Ville Lumière, Parigi anch’essa colta dall’occhio fotografico dell’autore, con le stesse descrizioni vivide e taglienti nonché liriche come fotografie, quelle scattate al di fuori dei corridoi turistici e che riescono a rappresentare la sua varia umanità, come in un trattato sociologico per tipi, su tutti le così definite Hautines parigine, tutto da scoprire di cosa si tratti, e «ragazze che in mètro non guardano direttamente, ma attraverso il riflesso del vetro à la francaise. Annoto su un foglietto: Cercare lo sguardo/ di ragazze lavate dentro/da un pianto recente».
Approdo all’isola
Descrizioni che riescono anche a cogliere il dato olfattivo con «gli odori di Parigi l’inizio di primavera» con «un sentore di funghi dai tombini, al mattino, di minestra scaduta dagli sfiati del metrò. Altre fragranze strane che non fai in tempo a trattenere: di guarnizione bruciata, pane in lievitazione».
I colori di Parigi infine a contrasto con quelli di K. l’isola delle Cicladi dove Livio ritorna dopo anni da quando vi aveva trascorso una vacanza con gli amici, trovando ancora «quella identica, esaltante fiducia nei giorni, nei mesi a venire, in una nuova Grande Stagione» quando scoprirà come in un’agnizione che «quella febbre, quella grinta c’è ancora, da qualche parte» il capitolo finale che si apre con un epigrafe di Guido Ceronetti citata anche all’interno dello stesso capitolo: «Lo sforzo più pesante per un uomo è essere leggero» e che chiude come in un’epifania un libro che dispiace che sia finito.
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