Il Cristo della Nothomb e il privilegio di essere umani

“Sete”, probabilmente il romanzo più intenso e profondo scritto dalla inimitabile Nothomb, ci ricorda il privilegio di essere umani. Al centro della scena Cristo condannato a morte coi suoi pensieri e i suoi rimpianti: sedotto, tradito, accusato, abbandonato, che si appresta a morire assetato, d’acqua, dei progetti incompiuti, del vivere intensamente le cose del mondo

Ponzio Pilato ha emanato la sentenza: Cristo, con la condanna di lesa maestà per essersi proclamato Re dei Giudei, deve essere crocefisso. Nella  lunga notte che precede la sua condanna a morte, il figlio di Dio nel buio della sua cella è solo, in attesa di esser condotto al Golgota dove tutto si compirà, il mattino dopo.

Bere

I pensieri che si annidano nella mente di un condannato a morte sono un mistero, forse è possibile solo immaginarli: si racconta che Socrate, costretto a bere la fatale pozione di cicuta, prima di morire, circondato dai suoi allievi, abbia espresso il desiderio di imparare a suonare il flauto; il Cristo di Amelie Nothomb (l’abbiamo intervistata qui) nel suo ultimo romanzo Sete (128 pagine, 16 euro) edito da Voland per la traduzione di Isabella Mattazzi, in quella lunga oscurità immaginata dalla scrittrice belga, ciò che più desidera è bere. Dissetarsi. Non pregare o genuflettersi a chiedere in raccolta contrizione perdono per tutti i peccati del mondo, ma soddisfare un bisogno fisico: bere. Un desiderio tanto umano da renderlo vulnerabile. L’arsura, l’asciuttezza nella strettoia della gola lo spogliano di ogni religioso talare e lasciano nuda la sua pelle di uomo. Il suo è un corpo che sanguina, soffre e ha paura. Paura di morire. Paura di soffrire. Così, l’essere più rivoluzionario e ribelle della storia dell’umanità cristiana, nelle pagine della Nothomb, con le mani legate e i talari sporchi di fango, ci restituisce un Cristo-uomo vicino agli uomini, con bisogni normali e sentimenti terreni.

Guardare

Nella sua ultima notte, in quella cella da condannato, il Figlio di Dio rivolge i suoi pensieri all’amata Maddalena che ama e ha amato dal primo istante che l’ha vista. Il sentimento dell’amore passa attraverso gli occhi dell’uomo «non credevo si potesse guardare così»; dedica un dolce pensiero alla Madre Maria che forse non era innamorata del marito, alla donna premurosa che, come una qualunque madre, rimproverava il figlio di non mangiare abbastanza: «Mangia, fai pietà!» e alla quale adesso augura di svenire per non dover esser costretta a guardare il figlio che spasima sulla croce «Se soltanto tu potessi svenire, mamma».

Pensare

L’esercizio del pensare annoda anche i  ricordi dolorosi che, in quella notte insonne Cristo riserva a coloro che gli hanno voltato le spalle: a Giuda, l’amico traditore: «Ho sempre saputo che Giuda mi avrebbe tradito»; alla fiera dei suoi miracolati, ingrati e lamentosi che, dinanzi i giudici inquisitori, capovolgono il valore dei doni ricevuti: il cieco a cui è stata offerta nuovamente la vista, si lamenta del mondo orribile che è costretto a vedere; Lazzaro si indigna di quanto fosse odioso vivere con quell’insopportabile puzzo di cadavere sulla pelle; gli sposi di Cana che lo accusano d’essersi preso gioco di loro e averli umiliati nel giorno delle loro nozze: «Per colpa sua hanno servito un vino eccellente dopo uno appena passabile». I miracoli diventano prove di accusa. Il  figlio di Dio, il predicatore che ha salvato, fatto miracoli, guarito, resuscitato, in quella cella è ridotto a un John Coffey impotente. Incapace di cambiare il futuro e costretto a percorrere quel miglio verde. «Cerchiamo di disincarnarci per garantirci una via di fuga. Domani io no ne avrò».

Morire

Un uomo vinto dalle cose del mondo: sedotto dall’amore senza possibilità di viverlo, tradito dagli amici, accusato dai suoi miracolati, abbandonato dal Padre. Assetato. Morire assetato: d’acqua, dei progetti incompiuti, del vivere intensamente le cose del mondo. Un mezzo uomo, un mezzo dio, un mezzo e mezzo, come direbbe Chiara Valerio. Il desiderio diventa tensione fisica ed emotiva. Un’estensione di dolore e mistico piacere, fin quasi a toccare il divino: «L’istante ineffabile in cui l’assetato porta alle labbra un bicchiere d’acqua è Dio». L’arsura e la brama diventano immagini complementari, entrambe ammancano di soddisfazione e appagamento.

Tuttavia, nonostante i bisogni e le necessità che quella ‘scorza’ umana esige e rende bisognoso e vulnerabile l’essere, «avere un corpo è quanto di più bello possa capitare».

Sete, che è probabilmente il romanzo più intenso e profondo scritto dalla inimitabile Nothomb, ci ricorda il privilegio di essere umani.

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