Un ibrido per una lettura abissale, un libro intimo e coraggioso. Ecco che cosa è “Anatomia di un profeta” di Demetrio Paolin. Tra narrazione non lineare, disordine spirituale e senso di colpa, la storia del suicidio di un bambino e la ricerca di un senso
È difficile scrivere di Anatomia di un profeta. Bisogna essere sinceri. Perché il dubbio di non averlo compreso, o peggio di averlo frainteso, oppure di non essere entrati in sintonia con l’autore, resta anche dopo aver sfogliato l’ultima pagina. Di certo è una lettura molto impegnativa, una lettura che non consente distrazioni. Quello di Demetrio Paolin non è un romanzo e neppure un saggio. È un ibrido di difficile collocazione: forse potremmo definirlo un memoir dell’anima, sempre che questa espressione abbia un senso. E non è un libro da consigliare a cuor leggero, perché si è rivelata una lettura “abissale”, volendo adoperare lo stesso aggettivo che Paolin usa per il Libro di Geremia. Ma Anatomia di un profeta (250 pagine, 17 euro), edito da Voland, è anche un testo estremamente intimo e coraggioso, oltre che funesto, violento, vertiginoso, sfacciato e spudorato. Facendo un paragone, Anatomia di un profeta è come un profumo troppo intenso che può ammaliarvi o urticarvi.
Un profeta e un bambino
Paolin ha scelto di intrecciare, in maniera volutamente complessa (ci sono decine di note a margine) due figure lontanissime tra loro: quella del profeta Geremia e quella di Patrick, un bambino di undici anni che si è tolto la vita. Il racconto è ambientato nei primi anni ’90, in un piccolo paese del Monferrato, ma l’ambientazione è irrelevante quasi quanto la trama che a malapena si scorge tra le pagine del libro. La vicenda di Patrick è talmente dolorosa da sconvolgere l’io narrante, il Demetrio protagonista del libro, che dal momento della tragedia non farà altro che cercare ossessivamente risposte all’accaduto, nel tentativo (inutile?) di dare un senso al mondo, alla vita, alla morte e a Dio stesso.
I temi di sempre, ma alzando il tiro
«Io voglio chiedere a Dio ragione di questa morte, perché un motivo, anche se folle e atroce deve esserci» si chiede ad un certo punto Demetrio. I temi che Paolin approfondisce in questo suo ultimo lavoro sono quelli già trattati nelle opere precedenti: la morte, il suicidio, l’origine del male, l’impostura. Ma in Anatomia di un profeta alza il tiro e sovente dà l’impressione di essere andato vicinissimo al bersaglio. Anche stilisticamente azzarda, rischiando di rimanere intrappolato nel limbo degli incompresi. La narrazione, infatti, non mai è lineare, così come l’impaginazione grafica che tradisce metaforicamente un certo disordine spirituale, disordine che più volte finisce per tracimare nel senso di colpa.
Fare i conti col suo Dio concreto
Demetrio soffre disperatamente per la morte di Patrick, fa fatica a capire, ad un certo punto, del suicidio del bambino, ne fa quasi la sua religione. E arrovellandosi giorno dopo giorno finisce per fornire interpretazioni estreme a se stesso, anche in virtù del continuo richiamo alle parole del profeta Geremia, il profeta inascoltato, l’unico profeta del Vecchio Testamento che si permette di trattare Dio da pari a pari, tanto da avanzare richieste e pretese. Demetrio sminuzza i versetti del profeta; di volta in volta sceglie, tra le tante, la traduzione che ritiene più adeguata; analizza e viviseziona ogni singolo vocabolo, concatenando fatti e riflessioni, ora spicciole ora teologiche. E tutto ciò lo costringe a fare ripetutamente i conti con Dio. Col suo Dio, un Dio concreto che non sembra avere nulla a che vedere col mistico e l’astratto.
Alla domanda “da dove viene il male?” dovremmo avere il coraggio di rispondere che viene da Dio, che viene dalla sua bocca: il male è nella sua parola, in quella che pronuncia e in quella che leggiamo. Da Dio non viene solo il bene, ma anche il male
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