“La foresta d’acqua”, romanzo pubblicato oltre dieci anni fa in Giappone dal Nobel Kenzaburo Oe, è un’opera stratificata e totalizzante. Un vecchio scrittore – alter ego di Oe – è alle prese con uno choc mai superato, la morte per annegamento del padre. E il ritorno alle origini, nel tentativo di comprendere la tragica scomparsa, lo mette dinanzi ad alcuni fallimenti…
Un’opera complessa, stratificata e totalizzante, come tutte quelle del maestro giapponese, Kenzaburo Oe, il più recente premio Nobel giapponese prima che dalla Svezia confermino i pronostici annuali che indicano Haruki Murakami come suo pressocché certo. Un’opera avvolgente e misteriosa, La foresta d’acqua (480 pagine, 25 euro), pubblicata da Garzanti, storico editore italiano di Kenzaburo Oe, tradotta da Gianluca Coci, a oltre dieci anni dalla prima edizione in patria.
Ritorno alla terra natale
In un Giappone non del tutto abbandonato alla modernità, ma debitore del passato, come spesso capita nei romanzi di Kenzaburo Oe c’è di mezzo, anche ne La foresta d’acqua, Choko Kogito, vecchio scrittore e alter ego di Oe. La sorella Asa gli telefona per invitarlo a trascorrere un po’ di tempo nel paesino natale, nel bel mezzo della foresta. Choko Kogito vive a Tokyo con la moglie Chikashi (in lotta contro un tumore) e Akari, figlio «nato con un’evidente grossa malformazione cranica», ma non ho dimenticato il suo villaggio e il trauma che da sempre lo accompagna e coincide con un sogno ricorrente: la morte del padre (membro di un gruppo ultranazionalista, anti-Hiroito) per annegamento, in un fiume vicino. Kogii – questo il suo soprannome in ambito familiare – accoglie l’invito della sorella (c’è di mezzo la consegna di una preziosa valigia rossa e il decennale della morte della madre) e, accompagnato dal figlio, il vecchio scrittore torna alla terra natale.
La rinuncia
Il rapporto tormentato con il passato e con la figura paterna troverà una chiave in una figura misteriosa, «il professore di Kochi», e in un brano de Il ramo d’oro di James Frazer. Potrebbe essere l’avvio di un lavoro letterario, quello della stesura di un romanzo attorno alla figura del padre e della sua morte, cosa che in realtà non avviene, anche perché nella valigia rossa appartenuta al padre non ci sono indizi sulle ragioni della morte o documenti davvero interessanti. Non è il solo fallimento del ritorno alle origini dell’alter ego di Kenzaburo Oe, che rinuncia all’ultimo grande suo sforzo letterario («il romanzo dell’annegamento»)
Fra teatro e rivelazioni
Sospesa tra vita e favola, la narrazione de La foresta d’acqua porta Kogito dinanzi ad altre due sfide. Prima di tutto la presenza della giovane e seducente Unaiko che lo pedina per conto del regista Anai intenzionato, con una compagnia teatrale d’avanguardia, a mettere in scena, adattandoli, i romanzi dello scrittore. Che, riluttante, si convince a scrivere una versione per il teatro di una sua sceneggiatura per un film mai nato. Poi l’incontro con una figura mitica, che riteneva morto: Daiō, allievo del padre di Kogito, privo di un braccio, fedele in modo ancestrale al suo maestro. A Choko Kogito rivelerà: «Kogito, non credo di sbagliarmi se dico che tuo padre lo fece apposta a chiederti di andare a sciogliere quella corda: non voleva che salissi con lui sulla barca… Ti ha salvato la vita! Si è lasciato trascinare via dalla corrente da solo ed è annegato nel fiume in piena». Certi concetti sono periodicamente reiterati, i ricordi di alcuni episodi tornano ciclicamente e scandiscono il romanzo, in cui non mancano citazioni (Eliot, Rimbaud), periodi complessi e frasi ridondanti di aggettivi; La foresta d’acqua chiede al lettore un impegno di concentrazione notevole, chiede di mettere da parte la vita e in qualche modo la restituisce.
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