Intervista a Daniele Mencarelli, autore di “Tutto chiede salvezza”, tra i 12 semifinalisti del premio Strega: “La mia vita ha avuto momenti di grande difficoltà, che mi hanno insegnato a trovare negli altri quel punto fermo che molte volte non riesco a individuare dentro me. Il mio rapporto con Dio? Mi definisco un aspirante credente. L’uomo coraggioso ha cuore e non smette di ascoltare. Per uno scrittore il coraggio è nello sguardo. L’idea di letteratura come intrattenimento mi repelle”
Tutto chiede salvezza (ne abbiamo scritto qui) di Daniele Mencarelli, pubblicato da Mondadori, è un’opera che intreccia narrazione e poesia, porta con sé la lucidità del dolore e la riflessione su un tipo di umanità, talvolta incontrollata alle volte invece repressa ma pur sempre viva, testimonianza di un sentire vivido e profondo che salva i personaggi dei suoi romanzi. La poesia scorre nelle vene di Mencarelli. Ne La casa degli sguardi, il suo primo romanzo edito da Mondadori, il riverbero dei temi cari a Mencarelli (qui i suoi consigli di lettura sul nostro Canale YouTube) riflettono le precedenti pubblicazioni, raccolte di poesie alcune delle quali inserite in numerose riviste letterarie. Non si tratta di una poetica relegata alla narrativa di formazione, le parole che ci consegna Mencarelli, i suoi dubbi, i suoi tormenti, il suo dolore, la sua ricerca, sono la base di un racconto corale, nel quale si insinuano i nostri stessi dubbi e le nostre stesse paure, i nostri tormenti e le nostre speranze. Per questo vale la pena accogliere le parole di Mencarelli, non solo per farle proprie ma per tramandarle.
Leggendo il tuo libro, Tutto chiede salvezza, nella dozzina del Premio Strega 2020, ho ripensato ai testi di John Cheever, alla sua scrittura asciutta e distinta, alle sue parole che arrivano esattamente dove dovrebbero arrivare. Quel modo di ascoltare e raccontare il proprio sentire e quello degli altri. È questo ciò che ho avvertito fin dall’incipit del romanzo, la costruzione narrativa corre spedita sui binari della frammentarietà dell’io e della percezione umana. Ti ritrovi nella poetica di Cheever? Il suo universo narrativo lo senti appropriato al tuo modo di scrivere e raccontare e alle tematiche affrontate?
«Amo Cheever, la sua asciuttezza cristallina, il suo universo di piccole cose. Molta narrativa americana ha saputo raccontare ciò che apparentemente non si può tradurre in letteratura: il mondo dell’umano colto nella sua normalità, nella sua ferialità più anonima. Pensa anche a Carver. Ma è una questione di percezione, torno alla tua domanda, e di come ti arrivi negli occhi quella normalità. Dove c’è umano non può esserci anonimato, e questi autori affermano esattamente questo, colgono la grandezza che resiste in noi. Perché la grandezza continua ad abitarci».
Restando nel circondario della frammentarietà dell’io, del tempo come antidoto e risposta ma anche come grande interrogativo esistenziale, Buzzati è un altro autore che mi ha ricordato la tua narrazione: quanto c’è realmente di Buzzati nella tua scrittura?
«Ho scritto poche settimane fa un lungo articolo per Il Foglio dedicato proprio a Buzzati. In lui adoro la capacità di cogliere la retorica profonda che si cela nella realtà, in noi, nella sua scrittura tutto è reale e fantastico allo stesso tempo. E poi amo il suo eclettismo, l’incapacità di farsi chiudere dentro una sola disciplina».
A proposito di tempo: Tempo circolare è anche il titolo di una tua raccolta di poesie edita da PeQuod. Nel romanzo Tutto chiede salvezza, il Tempo è uno dei personaggi della storia. Daniele, il protagonista, è un ragazzo di vent’anni, romano, che trascorrere una settimana in un ospedale in seguito a un TSO ma proprio la sua giovane età potrà aiutarlo a salvare la sua anima. Daniele si può considerare un naufrago che può trovare un approdo a differenza delle persone che conoscerà durante la settimana di trattamento sanitario?
«Naufragio e approdo. Anzi, approdi. La mia vita ha avuto momenti di grande difficoltà, ma che non riesco a definire negativi, improduttivi per la mia educazione sentimentale. Semmai il contrario. Quei momenti di difficoltà mi hanno insegnato a trovare negli altri quel punto fermo che molte volte non riesco a individuare dentro me stesso, ad affidarmi a chi ho di fronte, spesso non meno naufraghi di me, pensa ai miei compagni di stanza nel TSO che racconto in Tutto chiede salvezza. Nella relazione affettiva, nell’amicizia malgrado tutto ciò che è ostile, ho trovato approdi impensabili e bellissimi. Ma il naufragio è parte integrante della mia natura, chi mi ama, la mia famiglia, gli amici, lo sa perfettamente».
C’è un aspetto che mi ha molto colpita ed è lo sguardo che rivolgi ai medici: Cimaroli e Mancino. Se dapprima Cimaroli appare come il medico che ascolta e non teme di guardare le ferite dei pazienti mentre Mancino è scostante, quasi annoiato dal ruolo che ricopre, ben presto si scoprirà che entrambi peccano di arroganza e presunzione, non si pongono realmente in ascolto ma si limitano a registrare meccanicamente gli avvenimenti per poi riempire dei moduli. È uno spaccato della sanità pubblica dal quale emergono le grandi contraddizioni e le falle con le quali ci scontriamo ogni giorno, seppur a livelli differenti. La storia si svolge agli inizi degli anni Novanta, Credi che, nel frattempo, la sanità pubblica psichiatrica sia mutata?
«Nella descrizione e nelle azioni dei medici c’è senz’altro una testimonianza di ciò che si vive dentro tante realtà sanitarie del nostro Paese. Questi due medici soccombono a un sistema che non gli permette di lavorare al meglio. Ma questo non li esclude dalle loro responsabilità, dalla resa che vivono rispetto al prossimo, alla loro professione. Nel finale del libro, però, fa il suo ingresso nel reparto un imprevisto, qualcosa che va oltre la normale routine. Qualcosa che coglierà tutti per quel che sono veramente, non per la percezione che ognuno ha di se stesso. È la realtà. Sono le nostre azioni, gli altri, a dirci quel che siamo, molto meglio di come possiamo fare noi. Anche i medici verranno sorpresi dall’imprevisto, ognuno tirerà fuori qualcosa che pensava di non possedere, in positivo quanto in negativo…».
Daniele non cerca solo la salvezza ma la chiede. Per lui, per la sua famiglia, per coloro che non hanno voce, soffocati dal tempo e dalla storia, per chi si è perso in un’altra dimensione. La salvezza di Daniele arriva a noi come un grido, un’invocazione. È una parola che trova ampio spazio nelle Sacre Scritture. Che rapporto hai con Dio? Avvicineresti il significato di salvezza, racchiuso in questo libro, a quello di preghiera?
«Nella mia poetica è presente in maniera spesso violenta la relazione che ho con il divino. Ho un rapporto religioso con la realtà, non riesco a non vivere costantemente la sensazione che tutto abbia una lettura simbolica, che tutto sia un teatro dove in scena appaiono spesso anche attori invisibili. Il mio rapporto con Dio è quello di una caccia all’uomo senza sosta, gli sto dietro, lo inseguo, non mi accontento di viverlo in termini educativi, non ho avuto un’educazione rigida in tal senso. Mi definisco un aspirante credente. Parola poetica e preghiera hanno molto in comune secondo me, sono due parole che nascono dallo stesso nucleo primario, ossia dal nostro rapporto con la realtà, da ciò che amiamo e vorremo proteggere. Salvare».
La tua scrittura parte dal profondo, smuove zone inesplorate e spesso nascoste del proprio io. In questo senso è una scrittura che porta a galla, è quindi una scrittura coraggiosa, che non si limita a raccontare delle esperienze di vita vissuta. Perché questa scelta?
«Il coraggio è fondamentale nella vita. Il Novecento ha stravolto il senso originario di questa virtù, l’ha resa in termini di prepotenza bellicosa, di affermazione sull’altro. Tutto il contrario di quel che è. L’uomo coraggioso è l’uomo che ha cuore e non smette di ascoltarlo, che lo testimonia attraverso scelte e azioni. Per uno scrittore il coraggio è nello sguardo, nel non abbassare gli occhi davanti a quello che ti chiede di essere testimoniato. Come con la realtà, anche la relazione che ho con la scrittura risente di quella religiosità rispetto al vivere che ho citato nella domanda precedente. Non riesco a spogliare la scrittura, l’arte in genere, da quelle responsabilità prime e inderogabili, lo scrittore nasce per testimoniare il suo tempo e il suo sguardo, per dire con parole nuove il viaggio dell’uomo, sempre uguale e sempre nuovo, per farsi carico di chi non può scrivere e affida a lui questo compito. L’idea di letteratura come intrattenimento mi repelle. Intrattenere è una parola terribile».
Dalla poesia alla narrativa. Qual è stato il tuo percorso in termini di esperienza creativa e umana?
«Appartengo a quella categoria di scrittori che sovrappone, sempre con grande rischio, vita e scrittura. I piccoli grandi movimenti della mia vita, quindi, si riflettono con una certa naturalezza anche nella scrittura. Il passaggio da poesia a narrativa è nato in maniera improvvisa quanto istantanea. Soffro d’insonnia, una sera, mentre inseguivo il sonno, mi sono ritrovato a ragionare su alcuni incontri del mio passato, come quelli che racconto in Tutto chiede salvezza, e sul fatto che gli avessi dedicato delle poesie omettendo l’importanza che questi incontri hanno avuto sulla mia vita. Le poesie sono dedicate a loro e alla loro straordinaria umanità, ma non c’è traccia di quanto il loro vivere abbia influenzato e cambiato il mio. Questa riflessione personale ha scaturito immediatamente dopo una constatazione: non potevo tornare con la poesia a raccontarli. Da lì il passo è breve. Per la prima volta mi sono ritrovato a prendere in considerazione la narrativa quale possibile lingua capace di testimoniare il vero. Per me, sino a quel secondo, era stata sempre e solo la poesia».
Se tu dovessi accostare Tutto chiede salvezza a una tua poesia, quale sceglieresti e perché?
«Scelgo la poesia che ho scritto, dedicato a Valentina, senz’altro l’incontro più sconvolgente di tutto il romanzo. Un incontro che fa capire al protagonista quanto sia profonda e enorme la relazione con gli altri. I nostri gesti riverberano ben oltre le nostre intenzioni, spesso diventano portatori di mali nelle vite degli altri. Come nella vita di Valentina. È una poesia durissima, forse la più dura che abbia mai scritto.
È latta l’anello che volteggia
ma tu non te ne accorgi
quello che accade nei tuoi occhi,
miracolo che i sani non vedono,
trasforma in oro la materia
rubino la rossa plastica centrale,
ridi per quel tesoro,
regalo di un ragazzo che si è detto
il tuo più grande innamorato,
chissà in pegno cosa ti ha preso
creatura sconosciuta al male,
chissà quanti i draghi che ti assaltano
pronti a fare pasto del tuo corpo.
Che Iddio ci perdoni tutti».