Ha dentro il freddo dell’anima e il calore della rinascita “Tutto chiede salvezza”, secondo romanzo di Daniele Mencarelli, candidato al premio Strega. Un ventenne finisce in un reparto di psichiatria, in una sgangherata compagnia di compagni di sventura. E grazie a loro scopre che esiste il futuro…
Senza scomodare giganti, Silvia Plath o Umberto Saba, c’è una tendenza, o molto più probabilmente un’esigenza, recente e viva nelle ultime stagioni letterarie italiane. Di poeti che si mettono a scrivere in prosa o fanno incursioni lontane dai versi ce ne sono parecchi. Loro avranno bisogno di esprimersi nella narrativa e la narrativa ha bisogno di loro, della poesia, forma autentica, scomoda, così distante dal diluvio di parole che i media, social e no, ci restituiscono ogni giorno. Non ce ne vogliano Valerio Magrelli o Maurizio Cucchi, che si è cimentato compiutamente con la forma romanzo, non ce ne vogliano i giovani Andrea Donaera e Valentina Maini (di recente autori di romanzi, ma provenienti dal mondo dei versi), ma le eccellenze del “genere” vanno rintracciate altrove, in Gian Mario Villalta, pubblicato da Sem, e ancora più in Daniele Mencarelli (l’abbiamo intervistato qui), sorprendente – anche per i numeri delle vendite – da esordiente con La casa degli sguardi (ne avevamo scritto qui), due anni fa, e adesso di nuovo alla ribalta, strameritatamente nella dozzina dei candidati al premio Strega, con Tutto chiede salvezza (204 pagine, 19 euro), edito da Mondadori come il romanzo di debutto. Sono due romanzi, quelli di Mencarelli, in cerca di lettori, che ne troveranno, perché non fanno sconti ma danno ristoro, perché non usano “trucchetti”, ma sanno avvolgere chi li legge, perché hanno dentro il freddo dell’anima e il calore della rinascita. Perché sono ruvidi, credibili, palpabili e palpitanti. Onesti fino allo spasimo.
Vite di vicoli ciechi
C’è indubbiamente poesia e tantissima umanità nelle nuove pagine di Daniele Mencarelli (qui i suoi consigli di lettura sul nostro canale YouTube), ambientate a Roma, nell’estate caldissima del 1994. Ci sono parole che vibrano e non soltanto per il registro dialettale. C’è grazia e meraviglia nella durezza di una sgangherata e speciale compagnia in cui si ritrova il protagonista, un ventenne che dopo un accesso di rabbia finisce per una settimana in un reparto psichiatrico, dove è sottoposto a un trattamento sanitario obbligatorio. I vertici dell’esagono, oltre al ventenne, si chiamano Gianluca e Mario, Madonnina, Alessandro e Giorgio, vite di vicoli ciechi, fragili finiti a un angolo, ai margini dell’internamento coatto. È a questi piccoli che Daniele si aggrappa, mai davvero a medici o infermieri (che non hanno risposte), è fra loro, i compagni di sventura, che riconosce un senso di fratellanza. «I miei fratelli» li chiama, quando le pagine sono quasi esaurite.
La bellezza
L’empatia più delle cure, l’ascolto più dei farmaci. Ecco cosa servirebbe a questa specie di superstiti, «esposti alle intemperie», chiusi tra le mura di un ospedale, fra sofferenza e domande, fra il troppo vivere – specie il protagonista – e la ricerca di un senso da dare alle vite, alle azioni, alle cose. Una chiave gliela danno i compagni derelitti che «malgrado tutte le differenze visibili e invisibili, sono la cosa più somigliante alla mia vera natura che mi sia mai capitato di incontrare». La bellezza e la libertà dello sguardo sono il passaporto per tornare alla vita. Per provare a superare quello che non si può dire, smarrimento, disagio, rabbia, impotente desiderio di ribellione, i dolori difficili da intercettare o, quando intercettati, da mostrare, da far capire al prossimo.
Non è ancora finita
Tra le anime smarrite, ingarbugliate e spezzate che lo circondano per una settimana, nell’umanità di gesti e parole, nel commiato, Daniele matura un concetto semplice ma essenziale: non è ancora finita, in quel tempo circoscritto e sospeso, in quel luogo che gli si imprimerà perennemente negli occhi e nel cuore, qualcosa cambia, il futuro può nutrirsi di scoperte smisurate, di accadimenti non più insensati, della salvezza agognata nei primi vent’anni di esistenza e, ancora più nei decenni che seguiranno; nel mondo là fuori, palpabilmente reale e spaventosamente intensificato, il futuro può saziare la fame di parole e di vita, non spegnere ma alimentare l’incendio per stare al mondo.
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