Una storia strappata all’oblio, quella del traduttore della Bibbia in inglese, William Tyndale, che Marco Videtta ha trasformato nel romanzo “L’uomo che scrisse la Bibbia”, edito da Neri Pozza. L’autore racconta il lungo periodo di documentazione e scrittura: «Mi ci sono voluti anni, con periodi di scoramento e poi di rinnovato entusiasmo. Scrivere questo romanzo è stata una bella avventura. Il protagonista è stato oscurato per cinquecento anni. come se a Dante fosse stata negata la paternità della Divina Commedia…». L’intervista è stata trasmessa sul profilo Instagram della libreria Interno95, nel corso della rubrica “Libri vs covid – La lettura ai tempi del virus”
Marco Videtta, dopo essersi dedicato a pubblicazioni di ben altro tipo (ricordo solo, tra le ultime, la biografia di Danilo Rea, ma anche i suoi noir come Nordest e Le Vendicatrici) questa volta si è cimentato con il romanzo storico e, per non rendersi il compito facile, ha scelto una figura quasi del tutto sconosciuta, ma di grande rilievo. Siamo nella prima metà del sedicesimo secolo, tanti personaggi animano la scena politica, religiosa, sociale (Enrico VIII, Lutero, Erasmo da Rotterdam, Carlo V, Thomas More). Tutti sono passati alla storia; tutti, tranne uno: William Tyndale. Eppure, leggendo il suo libro si capisce che a lui la cultura moderna deve molto.
«È vero e debbo dire che mi sono cimentato in questa impresa – che confesso non è stata facilissima, non tanto nella parte riguardante la scrittura, quanto per la documentazione – perché in Italia non c’era proprio nulla a riguardo. E dirò di più; pensi, infatti, che anche quando ho contattato un biografo (David Daniell, professore ad Oxford), ho saputo che solo lui aveva parlato di Tyndale, che è assolutamente sconosciuto persino in Inghilterra. Anche per questo, mi è sembrata una storia che andava assolutamente raccontata, perché credo non sia mai successo nella storia della cultura occidentale che un personaggio così importante sia stato oscurato per 500 anni, nonostante la sua opera sia tuttora alla base del libro più letto in Occidente: la Bibbia in inglese, appunto».
Il racconto comincia con un’epidemia (proprio così) e con Eleuterius e William, protagonisti del racconto, oltre che personaggi straordinari, che si incontrano in modo del tutto fortuito…
«Ovviamente avevo pensato all’epidemia molto prima della complicata situazione attuale; mi serviva per fare incontrare le due figure di spicco della storia. Loro sono, per ragioni diverse, due fuggiaschi; Eleuterius è un medico alchimista che ha suggerito dei rimedi contro il colera ma non è stato capito, anzi è stato considerato una sorta di untore. Per questo motivo si allontana dalla cittadina della Turingia dove si trova, per passare la notte e proseguire il suo vagabondaggio in mezzo alla natura, perché lui utilizza erbe per curare. In un capanno trova un moribondo di cui non sa nulla e grazie alla sua abilità capisce che si tratta di un avvelenamento e lo cura con una pozione, guarendolo. Mentre aspetta che il poveretto ritorni in sé, Eleuterius scopre che su un tavolaccio ci sono libri di argomento biblico. In particolare si incuriosisce per via di certi fogli vergati a mano e capisce di trovarsi davanti a un vero tesoro linguistico, una storia d’amore con le parole, un testo in cui riconosce il Vangelo anche se in una forma inedita e bellissima, scritta in una lingua nuova e bellissima, incredibilmente musicale. Questo fa scattare in lui un’enorme curiosità».
Una curiosità più che giustificata, perché Eleuterius sta leggendo la Bibbia, ma grazie ad un testo diverso da tutti gli altri: è il testo di William Tyndale, il traduttore…
«Diverso per tante ragioni. Ricordiamo che la traduzione della Bibbia in tedesco di Lutero era zavorrata dai dogmi che voleva spiegare nella sua battaglia contro la Chiesa cattolica. Tyndale, invece, è mosso da un altro tipo di motivazione e cioè far comprendere il testo sacro anche agli umili, ai poveri, a quelli che non avevano accesso alla Bibbia, come un “quinto evangelista”. Qui va detto che l’unico testo sacro riconosciuto dalla Chiesa era in quegli anni quello scritto in latino e la traduzione in volgare era assolutamente proibita, in particolare dai vescovi inglesi che in quel momento erano ancor più conservatori della stessa Chiesa di Roma».
Cosa decide di fare, allora, Tyndale?
«Da grande erudito qual era decide di tradurre direttamente dal greco il Nuovo Testamento e scopre che il greco del Vangelo non era altro che una lingua parlata, dai poveri, e non una lingua colta. Nel tradurre fa la stessa cosa per l’inglese, che a sua volta era, in quel momento, ancora una lingua incerta, a metà strada tra il latino e il francese, e non aveva ancora una propria identità».
In altre parole, traduce e crea allo stesso tempo una nuova lingua…
«Proprio così. Tyndale si accorge che l’inglese che pian piano nasce nella sua testa si avvicina molto a quel greco e quindi comincia con sempre maggiore consapevolezza a inventare l’inglese moderno, quello che conosciamo oggi, creando delle meraviglie letterarie, una lingua basata molto di più sulle parole monosillabiche e bisillabiche. Usa, per esempio, “many” al posto di “multitudinous”, “gift” al posto di “donation” ma conia anche espressioni come “to fall in love” o “scapegoat”, capro espiatorio, o “sign of the times”; tutto questo dà un ritmo più snello, quindi più musicale a questa lingua che costruisce parola dopo parola, frase dopo frase; una lingua che da Shakespeare arriverà, nel corso dei secoli, per esempio a Bob Dylan».
E poi c’è il formato: Tyndale inventa, infatti, la Bibbia tascabile…
«Sì, perché la sua impresa viene osteggiata violentemente dalle autorità ecclesiastiche e anche dal re d’Inghilterra Enrico VIII che in quel momento era ancora un sovrano cattolico e non aveva ancora in mente lo scisma anglicano. Di conseguenza Tyndale deve scappare dall’Inghilterra e ha bisogno, per poterla diffondere, di un’opera che sia facilmente trasportabile, occultabile e distribuibile. In alcune parti dell’Europa, i mercanti inglesi godevano di una sorta di immunità diplomatica e lui ad Anversa può lavorare con una certa tranquillità; quando completa il Vangelo inventa il formato tascabile, occultabile nei sacchi di granaglie e vendibile a un costo molto minore di quello consueto e, quindi, più alla portata dei meno abbienti».
Ma torniamo alla lingua, lei a un certo punto parla addirittura di un linguaggio che è al tempo stesso antico e nuovo: è quello che esce dalla penna di Tyndale dopo avere studiato l’ebraico. È la nuova koinè…
«Sono ben lieto di rispondere a questa domanda perché questa parte del romanzo mi ha richiesto una particolare attenzione. L’ebraico, al contrario del greco, era una lingua assolutamente letteraria, ormai desueta. In Inghilterra non lo conosceva nessuno, nemmeno i più grandi eruditi e, allora, come può essere riuscito Tyndale a farlo suo e a tradurlo? Ho pensato che gli unici che potevano insegnargli l’ebraico erano i rabbini, mi sono documentato e ho scoperto che tra loro c’erano quelli molto ortodossi che non volevano contatti con i cristiani, ma anche scuole rabbiniche più aperte. Ho quindi immaginato che William, per raggiungere il suo scopo, si sia sottoposto ad ogni tipo di prova e di umiliazione pur di essere accettato dal rabbino Moses di Lubecca, con grande scandalo dei suoi stessi allievi. Il rabbino lo sottopone a una disciplina durissima, convinto che questo “gentile” finirà col desistere. E invece William tiene duro e finisce col diventare il suo allievo migliore. E così, grazie alla sua determinazione e al suo talento, Tyndale può cimentarsi con la traduzione anche dei quarantasei libri del Vecchio Testamento. Non solo, ma con l’ebraico riesce addirittura a migliorare l’inglese perché – e qui devo citare Walter Benjamin che in un saggio sulla traduzione invitò i traduttori soprattutto di lingue arcaiche a tenere conto delle radici della lingua (parole, immagini e suono) – riesce a travasare nella propria lingua queste tre componenti, creando l’inglese moderno, la nuova koiné, la lingua che nei secoli successivi ha vinto nel mondo moderno».
Il suo lavoro che, come sottolinea spesso, è un romanzo e non un saggio, contiene anche delle parti molto divertenti, soprattutto quelle che narrano le dispute tra William ed Eleuterius. La loro amicizia è davvero qualcosa di unico. Eppure sono così diversi…
«William ed Eleuterius non sono solo molto diversi tra di loro, ma anche rispetto a molti altri uomini di quell’epoca. Io mi sono innamorato di Tyndale perché lo considero un battitore libero, schierato con la Riforma, certo, ma animato soprattutto dal desiderio di diffondere la parola di Dio; e fa questo con una tale purezza da rifiutarsi di apporre il suo nome sul frontespizio dell’opera che aveva tradotto. E questo, per noi scrittori che siamo tutti molto egotici, è qualcosa di sublime. E l’unico che capisce quest’atteggiamento è la persona che per formazione ed esperienza è più lontana da William. Eleuterius è infatti l’unico contemporaneo a riconoscere il genio e la purezza di Tyndale. Da un punto di vista narrativo, questo personaggio mi ha consentito di evitare la voce narrante di un biografismo un po’ paludato, a favore di una forma dialogica, sicuramente più dinamica e agile».
Oltre che battitore libero, come lo definisce lei, Tyndale era anche e soprattutto uno “scholar” libero da vincoli ottusi. Quando, per esempio, apprende della morte di Thomas More, che fu un suo acerrimo nemico, gli tributa grandi onori.
«Certo, e lo fa da intellettuale a intellettuale. More era mosso da una sorta di bipolarità, perché da un lato fu uno dei più grandi umanisti – l’inventore della parola “utopia” che poi diede il titolo alla sua opera più famosa – dall’altro era primo ministro, un uomo di potere profondamente cattolico e, in quanto tale, diventa uno dei più acerrimi nemici di Tyndale, tanto da essere protagonista di una pagina di storia molto sgradevole. Scatena contro William quella che oggi chiameremmo “macchina del fango”, spostando la disputa dai grandi temi teologici al discredito personale e alla diffamazione. Ma questo, come sottolineo nella storia, non impedisce a Tyndale di riconoscere la levatura culturale di More».
Poche volte Tyndale sembra attanagliato dalla paura di un’impresa troppo grande, esagerata. Lei, mentre scriveva il romanzo, ha avuto mai paura di non farcela?
«Ovviamente sì, ricordo momenti nei quali è prevalso il dubbio, visto che in passato avevo scritto soprattutto dei noir. Ho usato le mie risorse di scrittore per essere semplice pur parlando di argomenti “alti”. Mi ci sono voluti anni, con periodi di scoramento e poi di rinnovato entusiasmo. Ho evitato di scrivere una biografia e ho scelto di dividere il romanzo in tre parti, cambiando per ciascuna il punto di vista, la prospettiva narrativa in modo da rendere avvincente il racconto. Nella prima parte è lo stesso William a raccontare la sua storia a Eleuterius, in modo che il lettore empatizzi con la semplicità del protagonista che è un uomo che parla come noi, racconta la sua vita come faremmo noi pur essendo un eroe. Restituire il giusto riconoscimento a uno spirito libero oscurato per cinquecento anni, come se a Dante Alighieri fosse stata negata la paternità della Divina Commedia: è questo il senso profondo del mio romanzo e per me scriverlo è stata un’avventura bellissima».