Borges, Naipaul, Onetti, Cortàzar e soprattutto Tomas Eloy Martinez. Scrittori e tessere narrative di un puzzle chiamato Evita. Figura che ha tratti surreali, magici, onirici ma nei quali gioca una parte importante l’oblio, la mancanza, lo stallo dei tempi. È in questo anfratto che il mito prende forma. A cominciare dal corpo
«È una storia che non potrei mai scrivere», confessa Borges, in una conversazione con il premio Nobel V.S. Naipaul. Si riferisce alla storia di Eva Peròn, al peronismo, a ciò che è stato del suo paese. Lo racconta Naipaul ne Il ritorno di Eva Peròn (una raccolta di saggi, questo è apparso la prima volta nel 1980): dopo innumerevoli viaggi in Argentina, riflette sui ritorni politici e sulle aspettative di un Paese che ha affrontato governi militari e la repressione. La storia di Evita ha tratti surreali, magici, onirici ma nei quali gioca una parte importante l’oblio, la mancanza, lo stallo dei tempi. È in questo anfratto che il mito prende forma. Tutte le vicende che riguardano la ex première dame argentina hanno un solo punto di partenza: il corpo.
Una casa con una stanza
Nel romanzo di Tomàs Eloy Martinez, Santa Evita, l’autore argentino racconta l’ascesa di una giovane ragazza arrivata a Buenos Aires a quindici anni, dalla profonda pampa argentina, per realizzare il suo sogno: diventare un’attrice. E gli interrogativi intorno alla figura di Evita non sono mai troppi. «Eva Peròn era bionda o bruna? Era del 1919 o del 1922? Era nata nella cittadina di Los Toldos o a Junìn, a quaranta chilometri di distanza?». Ufficialmente nacque nel 1919 (ma diceva nel 1922) a Los Toldos, «la cittadina più tetra della pampa, costruita sul sito di un accampamento indio». Una città monotona, quando la visita V.S. Naipaul le case sono in mattoni e le strade, che portano al centro, ancora in terra battuta. Per dieci lunghi anni Eva Peròn visse in una casa con un’unica stanza, ma questi anni le sono serviti per costruire se stessa: «Non sembrava più la stessa persona che era arrivata a Buenos Aires nel 1935 con i suoi quattro stracci, e che lavorava in teatri di infimo grado per un caffè macchiato. A quei tempi era niente o meno di niente: uno scricciolo, una caramella mordicchiata. I suoi occhi malinconici guardavano come se stessero per andarsene: non si notava il loro colore».
Il corpo e l’odio per i ricchi
Nel giro di tre mesi riesce ad ottenere il suo primo contratto. Nutre il suo corpo di obiettivi da raggiungere, per quanto potesse sembrare un’adolescente incapace di staccarsi da schemi sociali, ha le idee chiare. È in questi anni che il corpo stesso diventa centrale e seducente: «Tutti mi fanno delle avances», ammette, il suo corpo la renderà audace tanto da avvicinare Juan Peròn, la sera in cui lo conobbe, con un memorabile «Grazie di esistere». Per Martinez è chiaro che è intorno al suo corpo che si gioca la partita per la santità. Eva non ricopriva nessun ruolo ufficiale, ma governò al fianco del marito, Juan Peròn, fino al 1952, anno della sua morte a soli trentatré anni. Alla base della sua azione politica c’era un “odio per i ricchi […] E amore per “la gente comune”, “el pueblo”. Una parola che usava spesso e che fece entrare «nel lessico peronista. Impose a tutti un tributo per la fondazione Eva Peròn; restava al ministero del Lavoro fino alle tre, alle quattro, alle cinque del mattino per distribuire i soldi raccolti dalla fondazione ai supplicanti, dispensando una forma di giustizia personale. Era questo il suo “lavoro”: una visione infantile del potere, della giustizia e della vendetta», scrive Naipaul. Quando morì nel 1952, la sua azione politica aveva già fatto il suo corso, era diventata una santa agli occhi dei suoi sostenitori, «Evita fu la messaggera della felicità, la porta dei miracoli», sottolinea Martinez.
Ingresso nell’immortalità
Dopo la sua morte la volontà di sradicare il suo nome da quella terra era ancora forte, «i suoi ritratti sono dappertutto, ritoccati, quasi mai nitidi e spesso deliberatamente sgargianti, come le immaginette religiose destinate ai poveri» e nonostante i muri fossero stati nuovamente dipinti, si intravedevano ancora le frasi che inneggiavano al suo nome, «Eva Peròn apparteneva al popolo e alla terra», dice Naipaul. A ventinove anni il suo corpo è divorato da un cancro all’utero che la condannerà ad atroci sofferenze e a trentatré «entrò nell’immortalità». Gli ultimi giorni, le ultime ore furono quelle in cui il suo popolo non la abbandonò mai, le persone raccolte in preghiera si moltiplicavano lungo le strade del Paese: «Per tutto il tempo, si trasformò la sua tragedia in una rappresentazione pubblica: la Passione della dittatura. Per lei, che aveva trasformato il peronismo in una religione, la santità era già decretata da tempo; e si racconta che nei quindici giorni prima della sua morte l’imbalsamatore le rimase accanto per assicurarsi che il corpo non subisse danni». Perchè fu questo che accadde, quando Evita morì, il suo corpo venne imbalsamato, consegnato all’immortalità nei luoghi e nella mente delle persone. Il corpo morto non faceva altro che acquisire più forza e questa stessa forza metteva in difficoltà e in imbarazzo. «L’attrazione per il corpo morto cominciò ancor prima della sua malattia, nel 1950. Quell’anno, Julio Cortàzar terminò L’esame, romanzo impossibile da pubblicare», in cui «la gente aspetta non si sa che miracolo, si danna l’anima per una donna vestita di bianco, i capelli biondissimi sciolti, che le ricadono sul seno». «Il terrore che aleggia nell’aria non è il terrore di Peròn, ma di Lei, che dal fondo immortale della storia trascina in superficie i peggiori residui della barbarie».
La barbarie del lutto, la falsificazione del dolore
Divenne una bambola nel racconto di Borges, Il simulacro, contenuto nella raccolta L’artefice: un vedovo giunge in un paesino del Chaco, sistema su un tavolo una bambola con i capelli biondi e improvvisa una camera ardente, intorno alla quale si raduna la popolazione per porgere l’ultimo saluto: «il proposito di Borges era quello di mettere in evidenza la barbarie di quel lutto e la falsificazione del dolore attraverso una rappresentazione eccessivamente carica». Una “Pupetta”, nascosta fra le quinte di un cinema, e tre copie di cera inviate in Europa: il corpo, «quello di Evita che accettava con rassegnazione qualsiasi crudeltà, pareva insorgere quando lo spostavano». Un corpo minuto, arrivato a pesare trentasette chili nella sua ultima apparizione, sul quale, racconta Martinez, pesava “una maledizione” ed era capace di materializzare fiaccole e fiori freschi ovunque si trovasse. «Dopo la deposizione di Peròn nel 1955 esposero in pubblico i suoi vestiti, compresi gli indumenti intimi. Era morta da tre anni; ma quell’esposizione (soprattutto della biancheria intima) era una forma di violenza del macho argentino», per mostrare “sperperi e volgarità” di cui il popolo avrebbe dovuto indignarsi. Dice Martinez che «alcuni dei migliori racconti degli anni Cinquanta sono la parodia della sua morte», come Lei un racconto che Juan Carlos Onetti scrisse nel 1953 e pubblicò quarant’anni dopo.
Il fuoco appiccato
Martinez riconduce le origini del mito nella capacità di Evita di affrancarsi da quei piccoli ruoli alla radio per arrivare al trono, su cui nessuna donna era mai stata, nella sua morte precoce «come gli altri grandi miti argentini del secolo»; aveva incarnato il «Robin Hood degli anni Quaranta»; ed era amata alla follia da Peròn (il quale però si attribuiva la creazione di “Evita” ed “è facile rendersi conto che Evita lo amava molto di più). Il monumento funebre che non fu mai realizzato e l’estasi delle persone che nel toccarla, sentivano di toccare il cielo, tutto ciò deve fare i conti con un corpo incendiario. Imbalsamato, disperso, ritrovato, occultato e alla fine, restituito, il suo corpo era l’incendio appena sopito, la brace sulla quale tutto poteva riprendere vita, anche la rivoluzione. «In vita, aveva sempre buttato acqua sul fuoco per non far nascere ombre sulla figura del marito. Da morta, si sarebbe trasformata in un incendio», dice Martinez. «A vent’anni dalla morte ha avuto la sua legittimazione. […] Questa legittimazione, questa dignità, era tutto ciò che la ragazza di Los Toldos voleva; per ottenerla c’è voluta un’insurrezione, la distruzione dello Stato». Il corpo di Evita tornò in patria, oggi riposa nel cimitero della Recoleta, e Martinez attese ancora tre anni, dopo le numerose ricerche, per scrivere il suo romanzo: «Mi appariva in sogno, Santa Evita, con un’aura di luce dietro lo chignon e una spada in mano». La santità di Evita è stata scritta dai suoi nemici, dai detrattori, dal popolo che riunito in preghiera chiedeva la sua salvezza nelle ultime ore di agonia, infiamma gli animi anche a distanza di anni: «Eva Peròn appiccò il fuoco», ammise, infine, V.S. Naipaul.
Il ritratto di Eva Peròn è frutto delle seguenti letture seguenti letture: Santa Evita (Sur) di Tomas Eloy Martinez, Il ritorno di Eva Peròn (Adelphi) di V.S. Naipaul, L’artefice (Adelphi) di Jorge Luis Borges; in Santa Evita sono citati L’esame di Julio Cortàzar (Voland) e Lei in Triste come lei di Juan Carlos Onetti (Sur)