L’ennesimo tassello di un mosaico da riscoprire interamente: ecco cosa è “Il filo di mezzogiorno”, romanzo autobiografico di Goliarda Sapienza. Una giovane attrice, la depressione e l’insonnia, l’elettrochoc e un’analisi poco ortodossa. Si innamorerà dello psicanalista, ma il finale sovverte ogni equilibrio…
Da Campana a Morselli, da Savinio e Landolfi a D’Arrigo e Tomasi, ad Arpino e Bianciardi, da Penna a Bontempelli, a Delfini. Tra gli irregolari del ‘900 – outsider per ragioni caratteriali o stilistiche o mentali o ideologiche – non si può non ricordare Goliarda Sapienza che, dopo tante discese e risalite, è assurta al rango di classico dopo una lunga “militanza” fra inclassificabili, eclettici ed eccentrici. Un traguardo raggiunto con la riscoperta del suo L’arte della gioia (Einaudi) e puntellato dal rilancio delle altre sue opere. È il caso de Il filo di mezzogiorno (200 pagine, 15 euro), secondo libro dopo l’esordio di Lettera aperta che torna a vedere la luce grazie alla casa editrice La Nave di Teseo e alla curatela di Angelo Pellegrino, marito di Goliarda Sapienza, che in vita fu anche partigiana e poi attrice, soprattutto teatrale, fino ai primi anni Cinquanta.
L’anno di Portnoy
La nuova edizione arriva a quarant’anni dalla prima, presso Garzanti: era il 1969 e quell’anno – come ricorda Pellegrino nell’introduzione – fu pubblicato negli Usa (sarebbe arrivato in Italia nel 1970) Lamento di Portnoy di Philip Roth, altro romanzo che faceva i conti con la psicanalisi e in cui il protagonista si raccontava a un terapeuta: romanzo comico-umoristico, quello di Roth sul «complesso rapporto con la madre e una comunità, quella ebraica, con le sue ossessioni non dissimili da quelle di un’educazione di sinistra marxista», come quella di Goliarda Sapienza.
No alle richieste commerciali
Anticonformista e irriverente, quasi come la libertina Modesta del suo romanzo più famoso, un’autobiografia immaginata, la catanese Goliarda Sapienza è morta settantaduenne, nel 1996, ma era già stata ridotta al silenzio editoriale da quasi un decennio, riscoperta postuma in Francia e rilanciata definitivamente nel 2008 con la pubblicazione einaudiana de L’arte della gioia. Già in vita, però, aveva scritto libri irrinunciabili, come «Il filo del mezzogiorno», venato di autobiografismo, come molti dei suoi – che non si era piegata all’industria culturale, rifiutando richieste “commerciali” del commendator Rizzoli, un contratto per sei romanzi aventi «per tema la vita delle bambine siciliane, senza tralasciare l’aspetto sessuale» – quasi ignorato dalla critica.
L’attrice insonne e depressa
Il romanzo si apre con l’ammissione della protagonista (alle prese con le vocali troppo aperte, da migliorare) alla Regia Accademia d’Arte Drammatica, grazie a una borsa di studio. Un misto di insonnia e depressione la trascina in un buco nero e, in un’occasione, la porta a ingerire troppi sonniferi, non un tentativo di suicidio, ma le conseguenze, a quell’epoca, sono inevitabili: un devastante elettrochoc, prima dei colloqui con uno psicanalista di grido, esponente di teorie che in Italia avevano fatto i conti con la “glaciazione” fascista, seguita da vivere un’ascesa irrefrenabile. L’analisi risulta essere poco ortodossa e comunque la paziente, Goliarda Sapienza conduce il lettore nelle pieghe più nascoste della psiche, «nel ghiaccio di questo mio passato», specie nella necessità di sentirsi accettata e nella paura dell’abbandono. Poi s’innamora di colui che dovrebbe salvarla, in un finale che sovverte ogni equilibrio e da cui la psicanalisi esce a pezzi. «Ogni individuo ha il suo segreto che porta chiuso in sé fin dalla nascita. […] non lo sezionate, non lo catalogate per vostra tranquillità. […] Ogni individuo ha il suo diritto al suo segreto ed alla sua morte». (Questo articolo è stato precedentemente pubblicato sul Giornale di Sicilia)
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