La morte di Sepulveda sembra la madre di tutte le fake news, ma non è così. Nel libro “Vivere per qualcosa”, scritto con Mujica e Petrini, ragionava sul diritto alla felicità e sugli ostacoli sulla strada per raggiungerlo
Luis Sepulveda è morto. Sembra, conoscendone la forza infinita, la madre di tutte le fake news, ma, purtroppo, non lo è.
Eppure, a quanti hanno conosciuto la sua storia personale, il suo instancabile impegno, la sua non comune capacità di stare, con disarmante gentilezza, tra la gente comune e, con eguale determinazione, dalla parte dei derelitti, continua, questo ferale annuncio, a sembrare sempre e solo una delle tante bufale che circolano sulla Rete.
Dalla parte di balene e indigeni
Non è così, purtroppo. Il grande scrittore che, subendone le orrende torture, aveva combattuto contro la dittatura di quello che Pedro Lemebel chiamava “l’orco cileno” e che non aveva esitato, poi, a schierarsi dalla parte di balene e indigeni dell’Amazzonia, questa volta ha dovuto cedere il passo ad un dannato virus senza divisa né prigioni, e tuttavia capace anch’esso di mietere vittime innocenti e modificare in modo violento e drammatico le vite di tanti, troppi, abitanti di questa Terra.
È un giorno di lutto, dunque, per milioni di lettori, per quanti hanno seguito e persino condiviso i suoi mille impegni, le sue lotte, il suo lucido intervento intellettuale. Ma è anche, lo sappiamo già, il primo dei tanti giorni nei quali ci piacerà rileggerlo, rivederlo, ascoltarlo.
Il mio piccolo contributo a questo percorso vorrei darlo, allora, riprendendo un libro del 2017, da lui condiviso con Josè Mujica e Carlo Petrini ed intitolato Vivere per qualcosa (100 pagine, 12 euro), pubblicato da Guanda e Slow food editore.
Il lavoro politico più importante
E lì che Sepulveda ci racconta quando, nel marzo del 1971, il presidente Salvador Allende chiese agli uomini della sua scorta – e, dunque, anche a lui – di assistere ad una sua intervista con un filosofo francese, ottenebrato dalla teoria marxista e, contrariamente al presidente cileno, dotato di una «notevole arroganza intellettuale».
Quel dialogo consentì ad Allende e poi, nel libro, allo stesso Luis di parlare della felicità quale «fine naturale ed ultimo della specie umana».
Scrive, tra l’altro, il grande uomo e l’immenso scrittore che noi salutiamo
Non so se vivrò abbastanza per poter verificare che l’umanità è riuscita ad arrivare alla pratica quotidiana, normale di questo diritto alla felicità, ma so e sono convinto che lo sforzo di tanti […] per spiegare, per definire, per individuare tutto quel che si frappone tra noi e il diritto supremo alla felicità, sia oggi il lavoro politico più importante che si può fare
Ciao, Luis.
Molto bello