Una scrittura fresca ma accattivante, smart ma non banale, caratterizza “Quattordici spine” di Rosario Russo. L’ispettore Luigi Traversa indaga su un delitto nella provincia catanese. Una storia di intrattenimento alto, senza intrighi rompicapo
Notoriamente non sono né un’amante né una lettrice di gialli, specialmente di polizieschi, ma quando Rosario Russo (qui un suo video per LuciaLibri), autore di Quattordici spine (184 pagine, 14 euro), pubblicato da Algra, mi ha fatto dono della sua seconda fatica letteraria la curiosità di andare al di là quello che probabilmente è solo un pregiudizio per un genere da me ritenuto a me poco affine, complici anche le qualità umane di questo giovane scrittore acese e – diciamolo pure! – una certa dose di campanilismo – le vicende sono pressoché tutte ambientante nella mia Acireale – hanno avuto la meglio.
Un cadavere in un sacco
“Del resto” mi sono detta “è accaduto più o meno lo stesso – ovvero di partire prevenuta per poi ricredermi – con il genere fantasy” davanti al quale storcevo il muso e che ho iniziato a leggere decidendo di dare pieno credito ai consigli di una mia preparatissima amica in materia.
A rompere definitivamente gli indugi tra me e Luigi Traversa, protagonista del romanzo, l’incipit, il prologo per l’esattezza: è notte fonda, un uomo solo, in preda al panico, deve decidere cosa fare di un cadavere rinchiuso in un sacco nero.
Mi pare proprio un’ottima premessa nel contenuto e nello stile, specie perché strizza l’occhio a un che di cinematografico per il quale, invece, il mio debole è notorio.
“Adesso sì che la lettura può avere inizio!” mi dico incuriosita. E mi avvio.
Da Feltre ad Acireale
Traversa, trentasettenne ispettore di polizia, barba rossiccia e ispida, è stato trasferito dalla cittadina veneta di Feltre alla barocca Acireale, in provincia di Catania. Il motivo di tale allontanamento si comprende essere legato a una brutta vicenda professionale che va a costituire un giallo nel giallo, anzi, per quanto mi riguarda il mistero più intrigante da scoprire. Tuttavia non pare esserci granché da fare in questa elegante cittadina almeno finché, la mattina del 21 maggio del 2018, Traversa non viene letteralmente buttato giù dal letto e chiamato a confrontarsi con un tanto inaspettato, quanto brutale omicidio: quello di don Mario Spina, canonico della centralissima basilica di San Pietro, trovato in una pozza di sangue proprio nella sua sacrestia. Il movente del delitto sembrerebbe subito chiaro agli inquirenti – non al lettore che, da osservatore privilegiato, gioca con il vantaggio della scena iniziale– ma la pista seguita in prima battuta dalla magistratura non convince pienamente l’ispettore che, insieme con il commissario Lorefice e il vice ispettore, Sonia Orlando, cercherà di andare a fondo della questione.
La metafora del fico d’india
Così dubbi e misteri s’infittiscono proprio come fitte sono le spine del fico d’India, il succulento frutto tipico della Sicilia, che diventa metafora-chiave non solo della vicenda investigativa, ma anche della storia personale di Traversa e, per estensione, del segreto, spesso impenetrabile anche agli stessi siciliani, che quest’isola piena di contraddizioni porta con sé.
«[…] c’è chi sostiene che non ci sia cosa migliore di assaggiare un fico d’India per comprendere la Sicilia. Se si vuole assaporare la dolcezza del frutto, bisogna prima eliminare ogni timore di affrontarne le spine. Questo equivale a capire cosa significhi vivere in Sicilia» è la frase rivelatrice che Russo mette in bocca a uno dei suoi personaggi e a partire dalla quale inizieranno a snocciolarsi molteplici verità.
Dunque, perché si arrivi allo svelamento della spinosa verità, il nostro protagonista dovrà per quattordici giorni togliere una spina alla volta con gli “effetti collaterali” che questa delicata operazione comporterà. Solo dopo aver rimosso ogni aculeo, all’ispettore sarà consentito di assaporare anche il cuore, anzi, il succo dell’inafferrabile, sfuggente sicilianità.
Enigmatico, inqueito e impacciato
Traversa viene confezionato da Russo come un tipo riservato, chiuso, enigmatico, impacciato nel prendere le misure con la Trinacria e i suoi abitanti: non capisce il dialetto, odia il pesce e soffre il caldo, sebbene non gli ci vorrà molto per scoprire di avere un debole per la cartocciata con le melanzane e per il fascino femminile delle sicule. Ma soprattutto Traversa è un tipo inquieto, agitato, appunto, da alcuni non meglio svelati fantasmi del passato, un passato doloroso che spesso torna a sopraffarlo, talvolta a vincerlo e con il quale sa che, prima o poi, dovrà fare i conti… e forse anche la pace.
Ad aiutarlo a sciogliere progressivamente le sue resistenze saranno i colleghi di lavoro, i già citati Lorefice e Orlando, l’agente Puglisi, gli occhi e i volti di chi spesso non ha il diritto ad avere voce, vere figure-chiave per la catarsi dell’ispettore, e il signor Bevilacqua, l’affabile vicino di casa grazie al quale il processo di familiarizzazione con la sicilianità diventerà più semplice o meno ostico… dipende dai punti di vista!
E proprio la sicilianità è senza dubbio uno dei punti di forza del romanzo, sicilianità che spicca in primis nella scrupolosa descrizione di luoghi e ambientazioni, in particolare quelli relativi alla cittadina jonica, così come nel viaggio attraverso i cibi, i profumi, i colori e gli odori tipici del territorio. Ne consegue che il lettore, abilmente trasportato dentro i vicoli, le piazze e le chiese acesi, nella suggestiva chiazza, il tipico mercato all’aperto, nelle frazioni circostanti, Aci Platani ad esempio, non può che rimanere ammaliato dalla poliedricità e della mutevolezza che caratterizza i paesaggi dal mare dei Faraglioni di Aci Trezza al maestoso Etna. E quella che a molti potrebbe sembrare una scelta facile, comoda, financo banale, ovvero narrare i propri luoghi, per Russo si tratta dell’unica opzione atta a conferire valore e concretezza alla propria inventiva, come a dire che si può scrivere con contezza solo di ciò che si conosce davvero e bene.
Omaggi ai grandi siciliani
Altro punto a favore di Russo, ancor più se si pensa che si tratta di un autore giovane (classe 1986), sono gli evidenti omaggi ai grandi scrittori siciliani – Verga, Camilleri e soprattutto Sciascia – presi a modello e intelligentemente non scimmiottati. In tal senso Russo si mostra un autore consapevole, capace di mettere sul piatto i presupposti necessari per crescere e maturare perché, a differenza di molti scrittori – o sedicenti tali – sa che, prima ancora di prendere la biro – ormai sarebbe più corretto dire la tastiera – in mano, per onorare questa complessa arte bisogna anzitutto leggere, studiare, documentarsi, approfondire. E che la strada è tutta in salita.
Ma la cifra davvero pregevole della penna di Russo è lo stile narrativo che si riversa in una scrittura fresca ma accattivante, smart ma non banale, fluida, sobria, scorrevole e questo nonostante il lettore si trovi comunque all’interno di una storia con diversi enigmi da sciogliere; soprattutto quella che troviamo in Quattordici spine è una scrittura che non si avvita su se stessa e rende la lettura piacevole incentivandola anche dopo una giornata pesante.
L’insieme di questi elementi conduce a un altro aspetto, a mio avviso, veramente apprezzabile: per quanto ci sia un evento delittuoso da risolvere, non ci si imbatte mai in complessi intrighi rompicapo, per cui bisogna farsi schemi e schemini da perderci il sonno, o in rivelazioni impossibili che solo al più attento esperto giallista potrebbero non sfuggire… a mio avviso – questo ci tengo a ribadirlo – perché mi rendo conto che forse questo particolare risulta ottimale per me che dentro questo genere di racconti tendo a perdermi e, conseguentemente, ad abbandonarli poco dopo. Quindi, con buona pace degli esperti di settore, questa componente che definirei di “intrattenimento”, di invito alla lettura per il piacere della lettura, unitamente alla rilevanza data alle biografie e alle vicende umane dei personaggi, mai sovrastate o sopraffatte dall’elemento investigativo, per quanto mi riguarda sono un plus valore e non una diminutio… Che volete farci? Sempre una psicologa sono!
Trovo, infine, apprezzabile l’impegno dell’autore a rifuggire dai canoni e dalle etichette anche dei generi letterari e che tanto mi fa pensare alla scena de L’attimo fuggente in cui il professore Keating invita i suoi allievi a strappare letteralmente le pagine del manuale in cui si pretende di ridurre un’opera ai grafici e classificazioni preconfezionate pensate da altri, ovvero a rompere quegli schemi che chiudono la mente anziché aprirla a sensi sempre nuovi o, quantomeno, rinnovabili.
Nota dolente di Quattordici spine, invece, risulta la caratterizzazione dei personaggi che sarebbero potuti emergere con maggiori tratteggio e spinta, specie in alcuni passaggi topici delle proprie vicende personali e dell’intreccio narrativo: manca un po’ di mordente che ci trascini pienamente dentro la storia, che ce la faccia vivere dal di dentro, che ce la faccia scorrere nelle vene e che avrei nettamente preferito alla sensazione, più volte riscontrata, di avere l’impressione di leggere un reportage giornalistico.
In ultimo peccato per qualche scivolone linguistico di troppo.
Meno stereotipi e modernità
Al netto di tutto, sono due gli aspetti di questo romanzo che, infine, vorrei evidenziare: il primo è che leggere Russo equivale sia a tuffarsi in una Sicilia meno stereotipata rispetto a come spesso viene dipinta, sia ad ammirare una bella, seppur realistica e disincantata, dichiarazione d’amore dell’autore alla sua terra. Il secondo è che Quattordici spine rimane un testo moderno, attuale, incentrato su una storia ben congegnata, per quanto, come già detto, la stessa poteva essere valorizzata meglio. Peccato, quindi, per le tante le potenzialità rimaste a covare senza giungere a un’operosa, piena schiusa: lo dico soprattutto a fronte del sottotitolo che campeggia in copertina, La prima indagine dell’ispettore Traversa in Sicilia, e che lascia presagire l’intenzione di una serialità che, alla luce di alcuni accorgimenti editoriali, non potrebbe che migliorare.
A Russo basterà eliminare qualche spina sfuggita qua e là per farci gustare a pieno chissà quanti e quali altri fichi d’India o – perché no? – altre leccornie sicule. Di certo per questo non c’è che l’imbarazzo della scelta!
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