Un anziano cantore funebre tra terre magiche e villaggi sperduti è il protagonista de “Il vecchio” di Jia Pingwa, tra i maggiori cinesi contemporanei, ancora non sufficientemente letto all’estero, che racconta una Cina sempre uguale e sempre diversa…
Radici millenarie, leggende popolari, saggezza contadina. Il vecchio (343 pagine, 18,50), edito da Elliot, di Jia Pingwa è uno specchio dell’anima cinese, quella più autentica. Per cercarla, per trovarla, l’autore vaga nei villaggi sperduti e nelle magiche terre dei monti Qinling affidandosi alla “memoria lunga” di un cantore funebre. “Il vecchio”, appunto. A lui è affidato il suggestivo, particolarissimo, racconto di una Cina sempre uguale e sempre diversa attraverso speranze e sofferenze del Ventesimo secolo.
L’incipit
«A Qinling c’è il fiume Daoliu, il fiume che scorre al contrario. Il ventitreesimo giorno del dodicesimo mese dell’anno lunare, in occasione del piccolo anno, c’è l’usanza di seguirne il corso per tornare indietro nel tempo. E la gente cammina e cammina lunga la riva, da oriente verso occidente, tra grotte e cespugli di rovi. C’è anche chi si confonde e, nello smarrimento, si sente più giovane e il suo corpo inizia a rimpicciolirsi. Chissà che alla fine non riesca a risalire la vagina e a tornare nell’utero?».
L’autore
Jia Pingwa ha 68 anni e una vasta produzione letteraria alle spalle. Malgrado sia indicato tra i più grandi romanzieri cinesi contemporanei, uno dei maestri delle correnti artistiche “Suolo natio” e “Ricerca delle radici”, all’estero è decisamente meno conosciuto di Gao Xingjiang – l’autore di La montagna dell’anima – e Mo Yan, entrambi premi Nobel, o di Dai Sije (Balzac e la piccola sarta cinese, il suo capolavoro) e Yan Lianke. È stata la casa editrice romana Elliot a far conoscere in Italia l’opera di Jia Pingwa pubblicando nel 2017 “Lanterna e il distretto dei ciliegi” e, adesso, “Il vecchio”. Due esempi di una narrativa che, si legge nella terza di copertina dell’ultimo libro tradotto da Patrizia Liberati, è capace di «descrivere il divario tra la Cina agricola e urbana, di rievocare le storie e i costumi della sua terra in un felice connubio di satira e poesia».
La traduttrice
Patrizia Liberati non è solo la “voce italiana” di Jia Pingwa, ma anche di Mo Yan. A lei si deve se nel nostro Paese sono stati apprezzati testi di straordinaria intensità e bellezza come “Le sei reincarnazioni di Ximen Nao”, “I quarantuno colpi”, “Il supplizio del legno di sandalo” e “Le rane” (tutti di Mo Yan, editi da Einaudi). Mai lievi le fatiche del traduttore che, per citare Umberto Eco, deve nel migliore dei modi «Dire quasi la stessa cosa». E restare nell’ombra. Qualcuno, però, s’è passato belle soddisfazioni. Come Patrizia Liberati, appunto, che Mo Yan volle sua ospite insieme con Mita Masci nella cerimonia di consegna del Nobel: «Grazie ai vostri sforzi – scrisse – nel corso di tutti questi anni ho conquistato una reputazione nel mondo letterario. In Italia e anche in molti altri Paesi. Se vinco il Nobel, è anche merito vostro».
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