In “Storia della nostra scomparsa” Jing Jing Lee dà voce a tutte le giovani donne a cui è stata tolta la dignità, donne dimenticate dalla Storia. Come Wang Di, una delle tante giovanissime di Singapore rapite dalle truppe giapponesi nel 1942. Lei e tante altre furono trasformate in schiave sessuali dell’esercito; tornate a casa dopo la guerra non trovarono conforto ma vergogna, umiliazione, colpa…
«Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva». Mi sovvengono queste parole di Primo Levi pensando alla presa di coscienza di Wang Di, la protagonista di Storia della nostra scomparsa (419 pagine, 19 euro) di Jing Jing Lee (Fazi), che perse ogni diritto di essere umano, anche il diritto alla sofferenza propria e altrui.
Siamo nel 1942, le truppe giapponesi invadono Singapore. I militari passano di villaggio in villaggio facendo razzia di tutto. Anche e soprattutto di ragazze. Bambine e fanciulle. Le più giovani hanno dodici anni. Wang Di viene brutalmente strappata alla sua famiglia. Da quel momento la sua vita cambia, per sempre.
La frattura della memoria
C’è un tempo in cui la memoria si frattura. Quando le angosce e i dolori diventano insopportabili, fagocitanti e opprimenti. È allora che la nostra mente decide di dimenticare. Fingere che nulla sia accaduto. Continuare una vita senza ricordare il proprio passato. Senza scomodare la psicoanalisi possiamo parlare di rimozione, oblio, amnesia. La terminologia ci viene in aiuto. Tuttavia, la linguistica non ci salva dal baratro nel quale l’uomo scivola quando il dolore supera la sua stessa dimensione.
Wang Di ha tentato di dimenticare il trauma. Ha tentato di dimenticare una parte della sua vita. Sua madre le ha più volte ripetuto di non rivelare a nessuno quello che le è accaduto. Wang Di ha eseguito.
Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, Wang Di torna nel suo villaggio d’origine, sperando di riabbracciare la sua famiglia, di trovare conforto in volti amorevoli. Ma non c’è conforto nei loro occhi: in quegli sguardi di ghiaccio si legge vergogna, umiliazione, colpa. A nulla serve parlare con la madre, cercare di spiegarle che, dopo il rapimento, Wang Di era stata imprigionata in una comfort house e trasformata, contro la sua volontà, in una schiava sessuale pronta a servire l’esercito. Quanti militari al giorno? Venti, quaranta? A volte anche di più. Wang Di dopo poco tempo aveva smesso di contarli. Le avevano strappato la dignità, le avevano anche strappato il suo nome. Tra le mura degli orrori non era Wang Di ma Fujiko.
Fujiko era stata violentata. Fujiko aveva perso l’onore. Non Wang Di. Questo ha cercato di dire alla sua famiglia. Le parole non sono mai state comprese. A volte il dolore è difficile da comprendere anche per chi lo conosce.
Dopo la guerra, la famiglia aveva tentato in tutti i modi di trovare marito a Wang Di, la ragazza disonorata. Wang Di sposò quello che chiamerà per tutta la vita Il Vecchio, anche lui vittima della Seconda guerra mondiale, anche lui con un segreto da nascondere che si portò nella tomba.
L’anello di congiunzione
La narrazione di Jing Jing Lee alterna i ricordi di Wang Di al presente storico. In questo presente compare Kevin Lim, dodicenne, solitario, bullizzato dai compagni di scuola, che viene a conoscenza di un segreto poco prima della morte della nonna. Kevin è l’anello di congiunzione tra il passato e il presente della sua famiglia. Ha il privilegio di essere testimone di un tempo umano e storico fondamentale per i suoi famigliari, ne capisce il significato e l’importanza pertanto inizia una ricerca che lo porterà a connettere i pezzi di un puzzle che ha radici profonde, unendo i punti della storia di sua nonna e suo padre con quella di Wang Di e del marito.
Sono sovraccarica di ricordi, scriveva Virginia Woolf. Jing Jing Lee ha ridato voce a tutte le giovani donne a cui è stata tolta la dignità, donne dimenticate dalla Storia, donne che si sono fatte carico, nel silenzio e nella solitudine, di quel fardello che il passato ha lasciato loro addosso.
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