La scrittrice e designer Judith Schalansky con “Inventario di alcune cose perdute” ha scritto un registro – con inserti narrativi – dell’irreversibile transitorietà delle cose. Un oggetto libro curatissimo e speciale, in cui sono evocate con grazia cose che non torneranno e cicatrici che non guariranno, da un edificio a un atollo, da un animale ai versi dispersi di Saffo…
«E in qualche raro momento, nel corso dei lunghi anni in cui ho lavorato a questo libro, l’idea che tutto scorra inevitabilmente mi è sembrata consolante quanto l’immagine dei suoi esemplari che s’impolverano sugli scaffali.» Un catalogo, un resoconto, un registro dell’irreversibile transitorietà di ogni cosa. Un libro fuori dal comune, come lo era già Atlante delle isole remote, edito da Bompiani. Il passo in avanti, o forse laterale, che compie Judith Schalansky è Inventario di alcune cose perdute (258 pagine, 19 euro), pubblicato dalla casa editrice Nottetempo, nella traduzione di Flavia Pantanella. Questa scrittrice e designer tedesca, che può attirarsi qualche critica per certo manierismo di alcune pagine, è invece inattaccabile per come ha costruito e curato personalmente l’oggetto libro (oltre al testo immagini sfocate e illustrazioni colorate di grigio, inserti grafici) la grazia con cui evoca, per l’appunto, ciò che è perso, le ombre di ciò che non tornerà, cicatrici che non guariranno. Non c’è consolazione e non c’è nemmeno una concessione al sentimentalismo.
La conoscenza? Possibile solo grazie all’oblio
Quali sono le cose che Schalansky, classe 1980, registra come scomparse, attraverso i secoli, e trasforma in storie? Luoghi naturali e non, creature, opere d’arte. Una dozzina di esempi. Il suo modo di fare sopravvivere le cose. Ma senza eccessi, perché come spiega la stessa autrice nel brano che introduce il libro e che sta in equilibrio fra ricordare e dimenticare, «Di certo dimenticare tutto è grave. Ma ancor piú grave è non dimenticare nulla, dato che produrre conoscenza è possibile solo grazie all’oblio. Se tutto viene indiscriminatamente salvato, come nelle memorie dati che consumano energia elettrica, tutto perde significato e diventa un ammasso disordinato di informazioni inutilizzabili».
Impercettibili o grandi segni
Le assenze sono dunque indispensabili, ma quelle che racconta Judith Schalansky (con un pizzico di autofiction, tra vita e invenzione di un personaggio che si chiama come l’autrice) sono assenze imperfette, perché tutte lasciano impercettibili o grandi segni, come una scia. Così si legge dei “buchi” dell’opera poetica di Saffo, dell’ultimo esemplare della tigre del mar Caspio, impagliato e andato a fuoco in un incendio, di un ritratto bruciato, dello scheletro di quello che sembrerebbe un unicorno, o di Tanuaki, un atollo sprofondato nel diciannovesimo secolo nel corso di un maremoto, nell’oceano Pacifico, o di uno storico palazzo demolito, quello della Repubblica a Berlino, sfondo della fine di una storia d’amore.
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