Oltre la coppia, oltre la trama, oltre l’intreccio: alcune scritture, nella fattispecie alcune scrittrici, si sono cimentate con una forma espressiva che è indubbiamente narrativa, ma anche lirica, che non segue filo cronologico né tranquillizza il lettore con una “vera” storia o un “vero” finale. Sta a metà tra l’autobiografia e l’invenzione, un po’ racconto un po’ personal essay. È il caso di “Permafrost” di Eva Baltasar.
Mi è capitato di essere incuriosita da nuove uscite che poi ho scoperto essere affini, al di là del semplice dato di fatto di essere libri scritti da donne (“Leggi le donne?”, è il refrain che fa saltare la mosca al naso ad alcuni, per quanto mi riguarda io “leggo le donne”, mi sono accorta, con una certa frequenza).
Cuore algido, voce focosa
Permafrost (128 pagine, 16 euro) di Eva Baltasar (2019, in Italia per nottetempo), tradotto da Amaranta Sbardella è il racconto in prima persona della continua altalena tra amore e morte di una donna di Barcellona, quarantenne, che saltando a piacimento da una riflessione all’altra e da un aneddoto all’altro della sua vita di bambina, studentessa di storia dell’arte e poi donna si raffigura con notevole accuratezza e una certa autoironia.
Il titolo, che letteralmente è il nome dello strato di terreno gelato proprio dei territori artici, indica la “corazza” che la stessa voce narrante in più punti cita e definisce, riferendovisi come a un tratto caratterizzante della propria identità.
In realtà, nonostante il termine evochi scenari glaciali, oppure un cuore algido, inespugnabile, la voce è al contrario focosa, elettrica, mascolina nelle prese di posizione quanto femminile nella capacità di autoanalisi. La donna che si racconta spicca subito sulla pagina grazie a un carattere irriverente, sfacciato, sopra le righe, capace di una salace critica verso due delle fondamentali figure femminili del proprio vissuto esperienziale, la madre, descritta come una perfezionista dai nervi fragili abituata ad affibbiare punteggi alle persone in base al ruolo sociale e professionale che hanno saputo conquistare, e la sorella, della quale viene esaminata la vita molto ordinaria con un po’ di pietà.
Volumi affini
I libri scritti da donne e “affini” di cui dicevo prima sono Stagno di Claire-Louise Bennett (Bompiani, 2019), La lavoratrice (ne abbiamo scritto qui) di Elvira Navarro (Liberaria, 2019) e appunto Permafrost: letti a distanza di tempo e in momenti diversi, li ho trovati accomunati da più elementi. Il fatto di essere ciascuno un’incursione libera e profonda nell’esistenza di una donna, il discorso sulla solitudine, il discorso sulla precarietà, il discorso sull’instabilità psicologica, il discorso preponderante sull’erotismo, e ovviamente la presenza di forti pulsioni di morte.
In Bennet abbiamo una protagonista che dal suo cottage irlandese sperimenta «un’alienazione derivata, più che dall’isolamento, dalla caduta totale dell’antropocentrismo», e che inanella episodi e aneddoti che il suo modo di parlarne rende importanti, anche se, come dice l’autrice, «La solitudine, per sua stessa natura, non ha chissà quale trama, né rigurgita di eventi».
In Navarro, che ambienta il suo romanzo in Spagna come Baltasar (le autrici sono una madrilena, l’altra catalana), abbiamo in più degli elementi specifici di affinità proprio con Permafrost, tanto che leggendoli a distanza ravvicinata potrebbe sembrare di poter entrare e uscire dall’uno all’altro come in due camere affacciate sullo stesso corridoio. Le protagoniste sono entrambe colte, laureate; cercano di lavorare nell’ambito di interesse e questo provoca loro frustrazioni; vivono in appartamenti in affitto o affittando stanze di appartamento, da cui il conseguente incontro con coinquiline sconclusionate; respirano sentimenti di morte/depressione; hanno uno strano rapporto con la deformità (sia fisica che psicologica).
L’humor nero e il sogno di farla finita
Scendendo nello specifico del libro Permafrost, è una lettura breve dal finale sospeso. La protagonista ha un humor nero che conquista, è risoluta e molto acuta. Ha per esempio un’alta consapevolezza di sé, che le permette di dire «Mi conosco come qualsiasi cammino che porti a casa», oppure «Da viva emano ancora un certo calore, dentro mi immagino molto morbida. Fuori lo sono più di quanto creda, quasi un prodotto di pasticceria, un oggetto laccato di tiepida cera, attraente come una prima linea».
Fa sorridere il fatto che nonostante rincorra il sogno di “farla finita”, alla fine un certo vitalismo o il caso la portino in direzione opposta, cosa di cui si rende conto anche lei, costretta ad accorgersi che «Il mio inconscio ha un grande istinto vitale» e che inoltre «Non posso lamentarmi, il mio cervello è un buon posto dove trascorrere la notte».
Studentessa di storia dell’arte, si barcamena affittando le stanze dell’appartamento di una sua zia solo a donne, delle quali spesso si innamora, in una girandola di incontri e situazioni che purtroppo viene a mancare con la laurea e quando la zia le chiede indietro l’appartamento, che desidera vendere per comprare casa. «Una ragazza basca con la faccia da balena bruciò la cappa della cucina e una brasiliana bellissima e dalle gambe corte se ne andò una notte con l’apparecchio del telefono. Eppure le chiacchiere a tavola compensavano tutto e c’erano cose che mi facevano sentire viva, come il fatto, per esempio, che si scopasse in tutte le stanze e che il bagno fosse sempre occupato. Finché un giorno, travolta in pieno da un torrente, mi laureai».
Nessuna paura di essere amorale
Questo costringe la protagonista a trovarsi un lavoro, e la porta in giro per l’Europa tra la Scozia, dove trova da lavorare come ragazza alla pari in una famiglia con due bimbi, e Bruxelles, città in cui sarà insegnante privata di spagnolo per bellissime manager francofone, come Veronika, della quale ricorda con edonismo «La pelle fina stesa come una membrana di costellazioni, le dita affusolate, la mobilità quasi musicale delle articolazioni». Della povera mamma scozzese dalla quale lavora come baby-sitter invece arriva a dire, con assoluto cinismo, «Sono sicura che, se la bambina rimanesse invalida, Fiona non si farebbe scrupoli ad assumere un’esperta ragazza alla pari a tempo indeterminato».
È quindi un personaggio così, imprevedibile, che non ha paura di essere amorale, che si deprime per il verde piatto della campagna scozzese e che alla richiesta di sua sorella di fare da madrina alla neonata che sta per dare alla luce riflette che «Un neonato non merita una madrina suicida». Per la sorella nutre un sentimento di curiosità mista a pietà, una specie di fascinazione denigratoria, che gliela fa smontare pezzo pezzo in tutti i componenti della sua “banale” esistenza. Sua sorella, «povera innocente senz’ali», ha un punteggio più alto nella graduatoria della madre perché non è lesbica, è sposata, ha un tranquillizzante lavoro da dipendente, e persino delle bambine. Inoltre è salutista e mangia solo cibi vegetariani evitando accuratamente la Coca Cola, ignara del fatto che, come annota beffardamente la protagonista, «le cose sane uccidono molto più lentamente».
C’è dell’affetto, certo, ma anche tanta incomprensione per questa sorella minore così perfetta e scialba: in un episodio tra quelli centrali, in cui la protagonista passa una serata a consolarla per la fine di una storia, oltre a rendersi conto che la sorella non sa chi sia Jackson Pollock prova anche la frustrazione di non riuscire a spiegarle come sia fare l’amore con una donna. Del resto la sorella, «malata di verità, è un organismo ectoparassita che deve accoppiarsi a un esemplare maschio per preservare l’equilibrio della sua menzogna»: non comprenderebbe mai le finezze psicologiche di un rapporto omoerotico tra donne, di un amore che è «Impulsivo e semplice come il disegno di un bambino, sì, eppure cela un assillo sofisticato».
Inconsueto approccio alla sensualità
Per la voce narrante le donne sono un costante pensiero, una ragione, e lei, da elemento mai passivo, è spesso desiderata da loro, al punto che le schermaglie amorose assumono i tratti di una specie di guerra tra titani, con offensive, ritirate, dispiegamenti di forze, capricciose rese e conquiste. È un approccio alla sensualità a cui non siamo abituati, perché è esplicito ma anche estremamente cesellato, fisico ma anche filtrato dalla letteratura: «La sua voce mi faceva fremere con violenza e mi consumava con velocità, al pari di una ciocca di capelli arsa dalla brace di una sigaretta» dice la protagonista, e descrive il proprio corpo come «aggredito dal suo accento come un bruco morbidissimo attaccato da un becco d’acciaio». La partner in questione è Roxane, fulmine a ciel sereno, francese di buona famiglia e di gusto raffinato anch’essa sfiorata da propositi suicidi. «“Che vuoi per cena?” Domandava. E lo domandava così, in corsivo, perché conferiva uno stile pure al parlato»
Il discorso sull’autodistruzione è forte ma di nuovo affrontato in maniera autoironica da Baltasar, che fa dire alla sua creatura che «un suicida realizzato, al giorno d’oggi, è un eroe». La morte cercata compare quindi spesso in scenette al limite con la comicità, ad esempio quando la protagonista in Scozia dice «Non ce la faccio proprio ad accettare l’immagine di una lumaca che strascina per caso la sua miserabile vita sulla mia miserabile morte» (che fa il paio con il terrore di buttarsi giù dal balcone e cadere sopra un gatto uccidendolo).
C’è sempre qualcosa che non va con questa morte, come il bagno profumato nella vasca di casa, con candele e sali, nel corso del quale tagliarsi le vene, funestato dalla stupidità della tenda da doccia, delle lamette che non tagliano e delle candele che potrebbero scivolare in acqua (Virginia Woolf era fortunata, almeno l’Ouse era un fiume sano, non inquinato). E poi la scenetta della dermatologa, dalla quale la protagonista va a causa di un neo sperando di sentirsi dire che è un tumore, salvo poi rimanere incantata del candore della giovane dottoressa e dispiacersi per lei e del fatto di rovinarle la giornata, «Quella donna mi rimaneva talmente simpatica che non meritava di diagnosticarmi un cancro», «A lei, la vocazione personificata? Con la sua tunica bianca, l’aura da Madonna Sistina che l’intenso chiarore filtrato dalle persiane le dipingeva attorno?».
Una ragazzina speciale
Come si vede, questa protagonista, o meglio il suo cervello, non vuole davvero morire, anche se la situazione di alterità rispetto agli altri e la sensazione di essere costantemente sotto esame, iniziata già in famiglia, la sprofondano in momenti di estrema desolazione. Il senso di vuoto, di inutilità, è quello che ha cercato di tenere fuori coltivando voracemente sia l’eros che la lettura, è quello da cui si nasconde fingendosi “ordinaria” mentre fa le felicitazioni alla sorella per telefono, ed è provocato forse dal sentimento di essere profondamente “diversa”, dove in “diversa” c’è appunto sagace, autoironica, cinica, caparbia, risolutiva, anche coriacea: «Vent’anni fa era tutto più aggressivo, trovavi tracce di metalli pesanti perfino nel biberon. Dev’essere per questo che noi bambini del baby boom siamo una generazione stupefacente, drogata dalla culla».
Alla fine forse, dopo averla decostruita tramite la satira, una scintilla di dolcezza può venire proprio dalla famiglia, non da tutta e senza riserve, certo, magari da un elemento, da una nipotina per esempio, la figlia della sorella perfetta per la quale lei si è autoetichettata “la zia lesbica”, una ragazzina speciale: «Credo di non essermi mai sentita abbracciata così. Claudia preme l’orecchio contro il mio petto e mi ascolta il cuore, che accelera il battito incoraggiato da lei. Una canzone hard-rock da culla mi cresce dentro e incrina il permafrost».
Come gli altri due libri citati all’inizio, Permafrost di Eva Baltasar rivela l’intelligenza di una voce femminile molto capace, e, come gli altri due libri citati all’inizio, mi ha lasciata con il dubbio che l’aspetto di un erotismo tanto esibito non sia così strettamente necessario alla costruzione di una storia, anche quando la storia, in effetti, non è più indispensabile, perché si è già oltre.