Wilde, insegnare da una cella a difendersi dal dolore

Declassare Oscar Wilde a dandy narcisista ed esteta è come associare Leopardi al pessimismo, è solo un frammento dello spettro di identità che delineano un uomo innamorato di un amore nato nell’epoca sbagliata. Lo dimostra “De Profundis”, destinato al suo amato giovane Bosie, in cui Wilde si mette a nudo, cuore che ha amato l’arte, annullando se stesso

1897, anno della caduta di Oscar Wilde, dal paradiso di feste e giornate passate a scrivere opere, Wilde si ritrova a fare i conti con i suoi “peccati”, precipitando in un’angusta e stretta cella. Venne imputato per sodomia e costretto a due anni di lavori forzati presso il carcere di Reading e, durante la reclusione, inizia la stesura di questa profonda lettera intitolata De Profundis (letta nella traduzione di MimI Olivia Lentati per la casa editrice Barbera). Il destinatario è la causa del suo male, colui che lo ha destinato a una vita miserabile: Alfred Douglas, soprannominato Bosie, anch’egli scrittore e poeta, ma con una maledizione familiare che si trascina dietro. Egli, come lo stesso Wilde racconta, è avvelenato da un odio viscerale nei confronti del padre, che si riversa nella clandestina relazione che instaura con Wilde. Due anime che hanno bisogno l’una dell’altra per sopravvivere, ma che si ritrovano a vagare in una società che non permette di vivere il loro “peccato”.

Il valore pedagogico

«Tu venisti da me per apprendere il piacere della vita ed il piacere dell’arte. Forse ho preferito insegnarti qualcosa di ben più stupendo: il significato del dolore e la sua bellezza.»

Wilde sa che, se la lettera arrivasse in mani sbagliate, aggraverebbe la sua posizione, quindi il testo è ricco di metafore e il vero significato delle sue parole emerge di più da ciò che non viene detto piuttosto che dalle dure parole che rivolge all’amato. Ciò è evidente da come Wilde parla della loro relazione, tessendo un rapporto, che potremmo definire pederastico, tra il maestro e il giovane alunno, quindi un rapporto che verte principalmente sul valore pedagogico. Wilde è il maestro che vuole impartire una lezione a Bosie, l’alunno, affinché egli non cada più negli errori che lo hanno perseguitato durante la loro relazione. Nonostante durante la stesura si trovi in carcere, questa missione pedagogica continua ad essere perseguita da Wilde, che occupa tutta la prima parte della lettera per impartire una nuova lezione al giovane; Bosie, infatti, si era avvicinato a Wilde per scoprire i segreti celati dal pilastro dell’estetismo, ma nella lettera la voce esteta di Wilde viene messa a tacere per parlare di un nuovo argomento: il dolore. Tra le righe della lettera viene intrecciata questa profonda lezione di vita, un ultimo grido che Wilde vuole riferire al suo amato, in quanto teme per la sua incolumità, visto che Wilde non può più essergli accanto. «Non era la prima volta che ero costretto a salvarti da te stesso» scrive, dopo aver parlato di un ennesimo litigio. Wilde vuole che Bosie sia in grado di continuare a vivere da solo e che affronti la sua paura più grande: il dolore, che da quando è nato lo ha stritolato, in quanto lui «viene da una razza con la quale il matrimonio è orribile, l’amicizia è fatale; una razza che pone mani violente sulla propria vita o su quella degli altri».

L’odio acceca l’Arte

«Quella facoltà che l’amore avrebbe nutrito in te, l’odio avvelenava e paralizzava.»

Dopo una lettura iniziale, Wilde risulta essere colmo d’odio per Bosie, le sue parole trasudano disprezzo e i mesi di lavoro e di stanchezza gravano sulle sue deboli spalle e pesano sulla sua mano che cerca di scrivere quella lettera. Ma, ripercorrendo i momenti che hanno passato insieme, l’odio diventa solo un’eco di quello che era e la realizzazione di una verità, che Wilde non era riuscito a vedere, gli bussa alle sbarre della cella: l’Arte, che li aveva uniti, è stata anche colei che li ha distrutti. Scrittori, amanti dell’Arte, adulatori della bellezza, ma entrambi troppo ciechi per poterla apprezzare, rimanendo all’ombra di un’illusione. Bosie è accecato dalla rabbia nei confronti della sua famiglia, Wilde è accecato dal voler salvare quest’anima perduta, dentro la quale però scorge un frammento che può essere amato. «L’odio acceca» è una frase che viene ripetuta spesso nel testo, un mantra che Wilde deve essersi imposto per non cadere anche lui nel baratro del risentimento, nonostante abbia molte motivazioni, come lui stesso racconta, per provarlo. Wilde racconta di come il loro rapporto fosse tenuto insieme dall’Arte e che, quando essa non era presente, Bosie non aveva motivazioni per restare. E allora Wilde riversa i suoi pensieri sulla carta, dice che si sentiva usato, ma allo stesso tempo si dà dello sciocco per aver desiderato qualcosa che non poteva avere. I soggetti si confondono, non è chiaro se Wilde stia rimproverando Bosie o sé stesso, entrambi hanno colpe per cui devono fare ammenda. Il rapporto con l’Arte e la sfera del desiderio vengono affrontate da Wilde che cerca di arrampicarsi tra i suoi ricordi e nella tormenta dei suoi sentimenti, esponendo la sua visione di un’Arte che ha vita e pervade tutto.

Maschere contro la volgarità

«Al mondo io sembro, di proposito, solo un dilettante e un dandy: non è saggio mostrare al mondo il proprio cuore. […] In un’epoca volgare come questa abbiamo bisogno tutti di maschere»

Spogliatosi dei vestiti da dandy, Wilde si mette a nudo davanti a un pezzo di pergamena e, seduto sul freddo pavimento e con lo sguardo rivolto verso l’unica piccola fonte di luce, scrive con in una mano una penna e nell’altra il suo cuore. Risaputa la sua maestria nello scegliere le parole adatte, in questa lettera ciò è messo a freno, per paura che qualcuno possa leggerla: zittito l’esteta dentro di sé, non sono più le parole a parlare, ma la punteggiatura e i sospiri che ne derivano. Dorian Gray sembra ormai essere stato scritto da quel corpo che ora si è trasformato nello spettro di un uomo che si è imposto una maschera d’oro per fronteggiare una società senza volto. Declassare Oscar Wilde a dandy narcisista ed esteta è come associare Leopardi al pessimismo, è solo un frammento dello spettro di identità che delineano un uomo innamorato di un amore nato nell’epoca sbagliata e che scrive il suo testamento alla luce di una candela consumata, che illumina le sbarre in cui lui stesso aveva cercato di rinchiudere il suo cuore, un cuore che ha amato l’Arte annullando sé stesso.

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