Parola a Telmo Pievani, filosofo della scienza, in libreria con “Imperfezione. Una storia naturale”: “L’evoluzione? Non ambisce alla perfezione, ma esplora il possibile. Il combustibile è l’individuo nella sua diversità”. Colloquio ad ampio raggio; dal darwinismo ai social, dai libri amati a quelli non finiti…
Filosofo della scienza e grande comunicatore scientifico, Telmo Pievani insegna Filosofia delle Scienze Biologiche (prima cattedra in Italia) all’Università di Padova, dopo essere stato, dal 2005, professore associato di Filosofia della Scienza all’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Il suo più recente saggio di una vasta bibliografia – più di trenta libri per Pievani – è stato pubblicato da Raffaele Cortina editore.
Pievani, partiamo dal titolo del suo ultimo libro, Imperfezione, una storia naturale. Sono proprio le imperfezioni la chiave della biodiversità, del successo della Natura?
«Formalmente è un libro sull’imperfezione, ma difende l’idea della diversità. Cerco di mettere in discussione l’idea diffusa che quando si studia la natura e l’evoluzione ci siano standard di perfezione e che il singolo organismo sia espressione di questo standard. Il singolo individuo nella sua diversità è il combustibile dell’evoluzione. Critico le visioni falsamente ottimistiche del processo evolutivo, una visione edificante delle creature. Esaltare l’imperfezione fa capire che l’evoluzione non ambisce alla perfezione, ma esplora il possibile. Ci sono compromessi, ci sono adattamenti costosi e imperfetti».
Concentrandoci sul genere umano, l’Uomo è un essere ricco di imperfezioni, ma è anche il più estroso, creativo, forse anche il più intelligente. Come si spiega questa che apparentemente sembra una dicotomia?
«Il caso del cervello è significativo, secondo quanto sosteneva Rita Levi Montalcini. Diceva di cercare il cervello perfetto nelle formiche, è un cervello molto specializzato, sotto forte controllo genetico, non ha grandi spazi di manovra e quindi è perfetto come adattamento. Aggiungeva, però, in quel mondo non troverete mai uno Shakespeare o un Leonardo da Vinci. Il nostro cervello, forte di continui rimaneggiamenti, è estremamente plastico, per due terzi si sviluppa dopo la nascita, è una spugna che assorbe, è costoso, consuma il venti per cento dell’energia metabolica. È impegnativo e imperfetto, eppure è capace di comportamenti di creatività straordinaria».
Forse il concetto di “imperfezione” è anche il modo più efficace per farci capire come funziona l’evoluzione?
«Fa capire l’aspetto democratico dell’evoluzione, se si toglie lo standard per applicare la natura, si apprezza la contingenza, l’idea che l’evoluzione avrebbe potuto prendere un’altra direzione. Questo non vuol dire ricostruire l’evoluzione col senno del poi, ricostruire il passato per giustificare il presente è sbagliatissimo. Il passato conteneva una serie di potenzialità che si sono realizzate nel presente, il passato era aperto e si ripercuote sul futuro».
Lo stesso universo, possiamo affermare metaforicamente, è figlio di una imperfezione cosmica?
«Sì, c’è una certa coincidenza tra ciò che credo e il lavoro di un caro amico come Guido Tonelli, tra gli scopritori del bosone di Higgs (autore del recente Genesi. Il grande racconto delle origini per Feltrinelli, ndr): l’idea che ci sia una sorta di vuoto in equilibrio tra materia e antimateria e che una minima fluttuazione, di fatto una piccola imperfezione, abbia generato tutto. Una leggerissima rottura di equilibrio e da lì tutto che procede a cascata. È molto affascinante e il gioco è facile a partire da qui».
Lei è un filosofo della scienza nonché un evoluzionista: perchè nel 2020, con tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione, la mente umana fa così fatica ad accettare l’Evoluzione come un fatto, anziché una teoria?
«Bella domanda. Per varie ragioni, mi sento di dare almeno due risposte, entrambe di tipo psicologico. L’evoluzione dà messaggi poco consolatori, preferiremmo una narrazione migliore, una storia con un senso e una direzione, in cui eravamo previsti; la ricostruzione darwiniana e post-darwiniana, invece, ci fa vedere che noi eravamo solo una delle possibilità. Magari è qualcosa che disorienta, ma secondo me arricchisce ed esalta l’occasione che abbiamo avuto a proposito dell’essere qui. La seconda risposta è dettata da molte indagini di psicologia sociale e dello sviluppo secondo cui la nostra mente preferisce altre spiegazioni, secondo molti studi l’evoluzionismo risulta controintuitivo, paradossalmente va contro il senso comune, la spiegazione evoluzionistica risulta difficile. Ecco come si spiega il successo che hanno certe visioni antiscientifiche, sono narrazioni più persuasive».
Lei ha scritto molti saggi su Darwin, alcuni anche per i più piccoli: se volessimo sintetizzare in poche parole, in che cosa consiste la sua grandezza?
«La sua è stata prima di tutto una grandezza umana, di un individuo che ha vissuto un durissimo travaglio interiore. Era un mite, un timido che ha capito di avere per le mani idee molto pericolose. La sua è stata un’intuizione straordinaria, aveva pochissimi dati a disposizione, non sapeva nulla di geni o cromosomi, non sapeva cosa c’è nelle cellule, ha basato i suoi studi su collegamenti, indizi, prove, con capacità analitica e sintetica straordinarie. Che tutti gli esseri viventi fossero uniti da una sorta di parentela, figli di un grande albero della vita, era un’idea potentissima di portata filosofica e culturale, a cui arrivò dopo viaggi in giro per il mondo. Le azioni individuali sono il combustibile del cambiamento, ogni individuo è diverso da tutti gli altri, queste differenze e le pressioni ambientali decretano il successo di alcune varianti piuttosto che di altre. Darwin ci arriva per via analogica, attraverso metafore, ma è stata una grandissima intuizione, rispetto alla vaghezza dei dati disponibili».
Giochiamo un po’ di fantasia: l’Uomo è in continua evoluzione. Siamo nell’era digitale, a livello neurologico i bambini di oggi subiscono pressioni diversissime (in ogni senso) da quelle che subivano i bambini dell’800 o del secolo scorso. Come immagina l’Uomo del 2500, in che direzione ci stiamo evolvendo?
«Difficilissimo dirlo, gli evoluzionisti non fanno previsioni, dipende tutto dalle scelte che faremo. Viviamo in un ambiente profondamente diverso solo da quello di qualche decennio fa, ma dipende da noi, da come vorremmo essere. Oltre ad adattarci ai cambiamenti, tenderemo a modificarli a nostro vantaggio. Il gioco di reciproca trasformazione potrebe proseguire sempre più velocemente».
Stiamo vivendo un momento particolarmente critico dal punto di vista ambientale: la crisi climatica è sotto gli occhi di tutti. Lei nel 2012 ha scritto una guida per apocalittici perplessi dal titolo La fine del mondo. Da allora gli allarmi si sono moltiplicati eppure i potenti del pianeta sembrano ignorare i segnali che gli scienziati “raccolgono” quotidianamente. A suo giudizio, siamo vicini al punto di non ritorno?
«C’è un’evidente sottovalutazione. Chi detiene il potere e vuole mantenerlo fa fatica ad assumere impegni costosi e impopolari, ma un è gravissimo errore, perché avremmo bisogno di lungimiranza, di una visione, di decidere d’intraprendere insieme un percorso con certi obiettivi di cui godrebbero i nostri figli e nipoti. Jonathan Safran Foer, nel suo più recente libro, Possiamo salvare il mondo, prima di cena, sottolinea come la scienza abbia detto molto, tutto, di come siamo in possesso di dati numerosi ed evidenti, solo che non ci crediamo davvero, non li abbiamo interiorizzati, non siamo allarmati dal punto di vista emozionale, nel profondo, e rinviamo tutti, perché crediamo che le misure giuste debbano essere prese da qualcun altro. Il conto però è arrivato. Se anche ci comportassimo virtuosamente, i nostri figli e i nostri nipoti faranno i conti con almeno due gradi di riscaldamento climatico, con le conseguenze del caso».
Cosa vuol dire essere un divulgatore scientifico oggi, in questo preciso momento storico, in cui in Italia, e non solo, milioni di persone sembrano vittime dell’effetto Dunning-Kruger, in un momento in cui la scienza viene spesso osteggiata, l’uomo di cultura guardato quasi con sospetto e ostilità?
«Vuol dire rivendicare il ruolo della competenza, controcorrente, perché non va di moda. Siamo sommersi da flussi di opinione, dobbiamo avere chiavi di lettura e interpretazione per filtrare tutto in modo autorevole. Spero che si recuperi l’idea che la scienza è una fonte indipendente e che lo scienziato, che ha raggiunto faticosamente certe competenze, ha il dovere di condividerle in modo trasparente, è un dovere civile, danno così il loro contributo al dibattito pubblico».
Per molti analisti, alla base di questo atteggiamento arrogante c’è l’uso smodato e distorto di intenet e dei social network. Citando Eco, il web ha dato diritto di voce a legioni di imbecilli. Lei che rapporto ha con i social, possiede profili personali, li usa? E se sì, come?
«Non ne ho per scelta, una scelta che continuo a difendere per esigenze di tempo e concentrazione personale. Ho la netta impressione che mi ruberebbero tantissimo tempo. Già è molto impegnativo per me rispondere ai messaggi di posta elettronica, non riesco a immaginare di sostenere una vita social. Certamente non sono così ingenuo da ignorarli, devo tener conto di esserne circondato, delle ripercussioni di certi dibattiti. Qui all’università di Padova c’è un magazine multimediale che usa i social per fare informazione scientifica. Mi interessano anche nel rapporto coi figli che sono immersi nei social. Credo che il tenore e la qualità di molto di quello che c’è sui social sia basso, non mi convince l’idea di continua istantaneità, per comunicare il più delle volte niente, o quasi. Faccio fatica ad abituarmi al racconto continuo di esperienze ed emozioni. Magari è meglio lasciarle sedimentare e raccontarsele la sera, dopo cena».
Lei che rapporto ha con la religione?
«Sono nato in una famiglia laica, come la mia attuale, la religione non fa parte del mio orizzonte però come linguaggio, come approccio mi incuriosisce, spesso mi piace dialogare con teologi, la storia delle religioni ci racconta tanto della spiritualità umana. La mia è una spiritualità naturalistica, quella di sentirsi molto piccoli in una grande storia, di sentirsi in relazione con la natura, una visione spinoziana».
Per Jacques Monod, il senso della vita è «vivere e sopravvivere nella propria discendenza anche a costo di morire». Per lei qual è il senso della vita?
«Monod alla fine dice che siamo zingari nell’universo, a un certo punto ci rendiamo conto che siamo sperduti nell’universo, non eravamo previsti, siamo piccoli, marginali. Acquisire questa consapevolezza, viverla serenamente, affidare alla nostra discendenza qualcosa che di noi sopravvivrà, in termini di eredità biologica e cultura è un senso, non il senso».
Cosa legge nel tempo libero, al di là di ciò che le interessa per motivi professionali?
«Mi interessa moto la letteratura quando si intreccia con la filosofia e con la scienza, penso a tutta la letteratura sul riscaldamento climatico, a La grande cecità di Amitav Ghosh, all’ultimo di Jonathan Safran Foer, ma anche al suo saggio precedente, Se niente importa, a Maya Lunde e al suo Storia delle api, a Ian McEwan e Bruno Arpaia».
Un libro che l’ha fatta innamorare della lettura?
«Due, La vita meravigliosa di Stephen Jay Gould, testo straordinario, e Armi, acciaio e malattie di Jared Diamond, un capolavoro di scrittura che cambia la prospettiva antropologica».
Un classico che ha mollato, che non è riuscito a finire?
«Hegel, ci ho provato tante volte. Logica della scoperta scientifica di Popper, in cui ci sono tante idee formidabili, ma che è di gran lunga illeggibile e respingente».