Con “Olocaustico” Alberto Caviglia chiede un cambio di prospettiva. La mossa azzardata di un giovane regista, un ebreo romano in Israele, scatena conseguenze catastrofiche, che mettono in dubbio la Shoah. Si riflette ridendo, con comparse d’eccezione, Philip Roth e Itzhak Rabin…
Non solo certezze da Israele o dalla migliore tradizione della letteratura ebraica, ma anche scommesse vincenti dall’Italia. La casa editrice Giuntina, dopo Laura Forti e Simone Somekh, solo per fare esempi piuttosto recenti, punta felicemente su Alberto Caviglia, di professione regista (già assistente di Opzetek), ma con evidenti doti di narratore tout court e che sa tuffarsi con naturalezza in un campo minato, quello in cui satira, negazionismo e Shoah (con certe sue liturgie) si intrecciano. Si può riflettere su temi serissimi e attualissimi, solo attraverso la lente dell’ironia e mettendo in guardia dal dilagare delle fake news? Sì, c’è chi ci riesce, e Caviglia fa parte di questa schiera.
L’inganno e le conseguenze
Il suo azzardo in formato cartaceo (o elettronico) si chiama Olocaustico (303 pagine, 18 euro). Nel 2023 il ventenne David Piperno, ebreo romano e aspirante regista di fantascienza, si trasferisce in Israele. Lì, però, più che far decollare la sua carriera, deve badare a mantenersi e non trova niente di meglio che intervistare sopravvissuti della Shoah, per conto del museo di Yad Vashem. Una mossa a dir poco azzardata del giovane avrà catastrofiche conseguenze planetarie: in assenza di ultimi veri testimoni, per scongiurare il licenziamento deciso dal direttore del museo, Itai Blumenfeld, fa impersonare a un clochard, Mordechai, il sopravvissuto di un immaginario campo di concentramento; remissivo, il senzatetto accetta qualsiasi cosa in cambio di vitto e alloggio. Una notizia trattata in grane stile, quella di un altro reduce dai lager, con tanto di conferenza stampa e promozione. Il falso superstite, però, è smascherato e da qui in avanti è davvero difficile arrestare la lettura del romanzo di Caviglia. Che non ha la vertiginosa tensione e l’anima enigmatica de L’impostore (Guanda) di Javier Cercas, perché viaggia in altre direzioni, in territori tenuti in piede dal grottesco e dal surreale.
Un mondo lontano dal nostro?
Il risultato è un cambio di prospettiva. Naturalmente non si ironizza sulla Shoah, ma si riflette su come la coscienza collettiva sia qualcosa di labile, su come sia facile abbassare la guardia e far dilagare fake news con antisemitismo e negazionismo a riemergere prepotentemente, in tutta la loro ignoranza, dalle ceneri. La Shoah e la sua portata storica, nel mondo (quanto davvero lontano dal nostro?) immaginato da Caviglia, sono negate, e l’ignoranza, la pigrizia e la disinformazione non riescono a mettere un freno a notizie sempre più inverosimili e incontrollabili. Una narrazione decisamente scanzonata e poco austera, quella di Caviglia, un intreccio surreale in cui si ride, e che si scioglierà in qualche modo grazie alla fantascienza (di mezzo c’è un lucertolone radioattivo…).
Philip Roth diavolo custode
Caviglia non ha paura di battere tasti su certi stereotipi del popolo ebraico e, probabilmente, dà il meglio di sé quando fa dialogare il suo David Piperno con due anime della sua coscienza, rappresentate dal “buono” Itzhak Rabin e dal “cattivo” Philip Roth, amici immaginari. Quando la fidanzata Sharon molla David scrivendogli un messaggio di posta elettronica, il “diavolo custode” Roth lo consola a modo suo: «Donne… […] Vedrai che le passerà… fidati, sono tutte uguali». E quando David gli fa notare che cosa ha combinato («… le ho solo mentito spudoratamente, ho solo cancellato la morte di sei milioni di persone daio libri di storia e dato il pretesto a quattro Paesi di dichiararci guerra… perché dovrebbe tenermi il muso?»), lo scrittore non fa una piega: «È quello che penso anche io. Mi piace questo spirito! […] Hai idea di quante femmine ci sono lì fuori in attesa di un tuo cenno?». Si prende bei rischi, da scrittore debuttante, Caviglia, ma l’architettura regge e sarà curioso vederlo ancora all’opera, non solo come romanziere. Del resto lui stesso, nei ringraziamenti, scrive che «un film sarebbe stato meglio di un libro».
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