“Dalle nove alle nove”, pubblicato nel 1918, costituisce il primo grande successo letterario dello scrittore austriaco Leopold Perutz: questo racconto gli è valso, da parte della critica, l’accostamento a un grande nome come Dostoevskij per il tema della giustizia e il senso di straniamento
Al centro di Dalle nove alle nove (206 pagine, 18 euro) di Leo Perutz – pubblicato da Adelphi nella traduzione di Marco Consolati, la stessa che lo aveva visto comparire precedentemente in Italia per l’editore Reverdito – c’è Stanislaus Demba, un bizzarro personaggio che si aggira per i giardini, le piazze, le botteghe, gli uffici e le infinite scale della capitale austriaca dell’inizio del ventesimo secolo. Vienna, con le sue giornate coperte e piovose, è co-protagonista del racconto: nonostante sia ben caratterizzata, essa può assumere la connotazione di tessuto sociale urbano universalmente valido.
Per dodici travagliate ore si insegue Demba – studente pieno di cultura ma anche contradditorio, irascibile e impenetrabile -, che tenta di manipolare chiunque incontri sul proprio cammino per ottenere ciò che vuole, baciato dalla fortuna ma anche capace di perdere in un attimo quanto appena ricevuto in grazia.
Demba trascina il proprio segreto sotto l’ampia mantella che lo protegge, in quello che potrebbe definirsi un noir o un giallo psicologico dallo stile retrò, interrotto da situazioni surreali e grottesche presentate con la classica ironia mitteleuropea che rallenta il ritmo, aumentando la suspense.
Una singolare ombra tra le vie di Vienna
Per circa metà narrazione, in un processo narrativo volto alla dissimulazione, viene adottato il punto di vista esterno al protagonista, quello dei personaggi che popolano la scena. Ai loro occhi, Demba è un personaggio eccentrico, se non addirittura pericoloso: la pizzicagnola crede che dietro i suoi strani atteggiamenti ci sia la volontà di rubare l’incasso della giornata, due professori vedono chiaramente nei suoi modi quelli di un consumatore di droga, la bambinaia – inizialmente sensibile al suo fascino – scappa inorridita alla scoperta della mutilazione dei suoi arti superiori.
Solo in seguito, in un gioco di specchi, viene spostato il punto di vista da quello dello spettatore diffidente a quello del protagonista, svelando l’antefatto che giustifica gli atteggiamenti che hanno destato l’attenzione dei passanti: Demba è sempre impegnato a fuggire da un destino che sembra già deciso, indaffarato fino all’ultimo istante, sempre con l’attenzione rivolta all’orario. Evita le situazioni che lo obbligano a mostrare le mani perché è ammanettato; il reato da lui commesso è il furto di tre edizioni di pregio di libri della biblioteca universitaria, della cui sparizione nessuno si è accorto per anni, e il tentativo di rivenderli per ricavarne del denaro.
Un altro giro di giostra
In fuga dall’arresto, Demba ha una sorta di epifania, in cui riesce per la prima volta a comprendere il significato della libertà: «In quell’istante mi balenarono in testa progetti che per anni m’ero tenuto dentro e che mai avevo realizzati. Cose senza senso sé importanza: il non avere ancora mai bevuto un bicchiere di birra con la cannuccia mi apparve come un grave peccato; dicono che ci si ubriaca e io non l’avevo mai provato. Oppure un’idea che avevo in mente da tempo, seguire passo dopo passo uno sconosciuto per vedere che combina, come si guadagna il pane e come trascorre la giornata (…) tutto questo ieri avrei ancora potuto farlo, cose insignificanti, certo, ridicole, ma era la libertà. E mi resi conto di quanto, nonostante tutta la mia povertà, fossi ricco, perché ero padrone del mio tempo. Compresi chiaramente, come mai prima d’allora, cosa significasse ‘libertà’».
Demba chiede al destino che gli siano concesse dodici ore per avere un’altra possibilità; viene accontentato, con la condizione di avere le mani letteralmente legate. Alla luce di questa nuova scoperta, sono gli atteggiamenti degli altri personaggi a sembrare assurdi, tutto sembra voler costituire un impiccio e un ostacolo per il protagonista, frapponendosi tra di lui e la possibilità di trovare i soldi che gli servono per un viaggio con l’ex fidanzata, che non ne ricambia più i sentimenti.
La ricerca di denaro si trasforma in una corsa frenetica contro il tempo: c’è tempo solo dalle nove alle nove, per mantenere una promessa fatta quasi più per principio che per amore. La costrizione del corpo si riflette nella costrizione del pensiero, in una schiavitù vera e propria, dove la mente viene soggiogata, piegata a un’ossessione che lo rende prigioniero. E se sembra riuscire a trovare vari escamotage per non dover mostrare le mani, Demba non riesce a essere veramente libero dal chiodo fisso, dal sentimento che non è più tale.
L’illusione data nelle dodici ore è quella di una libertà che non solleva ma stanca, che porta allo sfinimento, alla ricerca di una felicità che si rivelerà vacua.
Dalle nove alle nove di Leo Perutz è una riflessione sulla libertà e sulla sua mancanza, metafora quasi kafkiana della condizione dell’uomo, che si dibatte nelle catene dei limiti fisici, sociali o economici, affannandosi a cercare un senso, schiacciato dall’ansia e dalle aspettative di dover dimostrare qualcosa, impotente, quando il destino appare già segnato.
L’uomo solo nel tentativo di essere come gli altri
La scena finale all’interno del ristorante mette in luce il drammatico tentativo di Demba di cercare il contatto con gli altri, di somigliare a loro: quanto più cerca di non dare nell’occhio, di adattarsi al gruppo, tanto più si distingue da loro e viene deriso per la propria diversità. La sua è innanzitutto una diversità di condizione, che cerca di sfruttare per ricavarne qualcosa, ma che lo rende ancora più isolato, più solo. Nel provare ad affrontare l’assurdo, Demba ne viene travolto totalmente, perde il senso delle conseguenze che le proprie azioni comportano.
Demba viene stretto nella spirale del giudizio sociale e dei perbenisti che lo etichettano ora in un modo ora nell’altro, fino quasi ad annullarne l’identità, come se questa fosse data da come gli altri ci vedono e non da quello che siamo. Un giudizio da cui Demba sarà liberato solo allo scadere delle dodici ore, il tempo a lui concesso per rifarsi, ma che sono diventate un’ulteriore condanna.
Il tema del castigo
Per motivi tutto sommato futili, la pena di Demba pare spropositata, quasi fosse equiparata a un omicidio: non è chiaro se egli sia effettivamente colpevole o se sia, piuttosto, la vittima di un caso di eccesso di giustizia e di applicazione delle leggi.
«Che l’umanità abbia il potere di castigare, è questa la causa di tutta l’arretratezza spirituale. Non ci fossero castighi, si sarebbero già da tempo trovati i mezzi per rendere i crimini impossibili, superflui e inutili. Quanto saremmo più progrediti in tutto se non avessimo più né galere né patiboli! Avremmo case che non prendono fuoco e non ci sarebbero incendiari, non avremmo più armi, e non ci sarebbero assassini a tradimento. Ciascuno avrebbe quanto gli serve e quanto desidera, e non ci sarebbero ladri.»
Quello contestato dal protagonista di Perutz è il castigo che viene dato in terra, dagli uomini, e non demandato a un giudizio a posteriori. Il crimine che Demba si trova a scontare sembra una sciocchezza commessa superficialmente e per questo si ritrova in catene, suscitando reazioni disparate tra chi ne è spettatore, che ipocritamente inorridisce davanti a tale marchio di depravazione.
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