Un romanzo complesso, dall’atmosfera torbida, con due protagoniste tormentate, Miriam e Mairim: ecco cosa è “Il male in corpo” di Marisa Fasanella. Tra inganni, solitudini, verità taciute, interessi loschi. E così la storia si colora di più sfumature…
«Il cielo ha il colore del piombo e una nube maleodorante galleggia sul borgo vecchio: si spande fino alla nuova strada, entra nelle case, nel letto delle creature. La terra si rivolta e butta fuori gli acidi e i rifiuti e i bambini muoiono e gli adulti se ne vanno con il male in corpo».
Un paese non meglio definito, tuttavia verosimile e allocabile, che rievoca inquietanti fatti di cronaca. Un’intera città e più di una generazione avvelenate da un ignominioso inquinamento dei terreni, delle acque, dell’aria. Tante vite, che sanno di irrisolto e di infinito, intrecciate in fitte e complesse matasse relazionali: storie di vite emotivamente disagiate, preda di inganni, ansie, solitudine, che radunano dolori conficcati come schegge impazzite nei corpi e nelle anime. Una serie di strani decessi inanellati gli uni agli altri da un effetto domino troppo dirompente e troppo diffuso per essere semplicemente frutto del caso. Un velo di omertà tanto spesso da diventare cortina invalicabile. E la verità. Anzi, le verità: taciute, nascoste, occultate, mistificate, eppure ricercate.
Questo l’intricato mix di elementi con cui Marisa Fasanella tesse il suo ultimo romanzo, Il male in corpo, pubblicato dall’editore Castelvecchi.
Radici del racconto le vite di due donne. La prima, Miriam, abita in un quartiere rumoroso, all’ultimo piano di un palazzo ingentilito da fregi polverosi della città vecchia, di fianco a un parco. Vive da sola o, meglio, in compagnia del signor B, il suo bassottino.
Un disastro ambientale e i silenzi di un padre
Miriam lavora nella fabbrica il cui ufficio legale è stato diretto dal padre, Mimì Ferraro, per anni ovvero fino a quando i vertici dell’azienda, impegnata nell’estrazione del tannino per uso conciario – e gli interessi che intorno a essa gravitavano – non hanno deciso di seppellire i bacini artificiali e scaricare gli acidi velenosi prodotti nella terra. Risultato: una centrale a biomassa nata sulle rovine della vecchia fabbrica, corsi d’acqua avvelenati, laghi di sversamento occultati che urlano vendetta, specie in estate quando vanno incontro a fenomeni di autocombustione e i fumi tossici che da questi si sprigionano inquinano l’aria e i polmoni della popolazione che lì vive e lavora.
Mimì Ferraro ha seguito passo, passo la gara di appalto per la completa bonifica dei siti, ma la dirigenza – e i sempre presenti poteri che la manovravano – hanno finito per incastrarlo. Accusato di estorsione e di falso in atto pubblico, ha affrontato il processo a suo carico in maniera passiva, abulica, trincerandosi dietro un silenzio che gli ha bloccato la lingua, ma non le mani… i pensieri chissà… Così ciò che non può, non vuole o non sa più raccontare attraverso le parole, quest’uomo, ormai totalmente fragile e smarrito, lo affida a fogli di carta sui quali disegna forme che ricordano agnelli e caproni e che, almeno apparentemente, paiono non avere alcuna attinenza con quella che era stata la sua vita prima di quegli eventi.
Condannato dalla giustizia, ma prima ancora probabilmente dal suo stesso senso di colpa, adesso vive in una clinica di lungo degenza. E continua a tacere.
La moglie, Margherita, sopravvissuta «al processo e alla condanna, ma non all’assenza», qualche mese dopo la sentenza si è allontanata da casa con la sua Cinquecento rossa e il gatto Milù, scomparendo nel nulla. Di lei e del suo corpo si sono perse le tracce. Indietro torneranno solo la sua auto, vuota e, giorni dopo sulla spiaggia, il cadavere del gatto.
Da quel momento Miriam è rimasta sola con la nonna, Maria Schiavone, la quale ha affidato l’amministrazione dei suoi beni a Cecco Paone, un uomo losco, potente e misterioso. Cecco, sposato con Rebecca, assume anche il ruolo di tutore della stessa Miriam.
Cecco e Rebecca hanno un unico figlio, Massimo, che, dopo aver scelto di non seguire le orme tracciate per lui dal padre, si è distaccato dalla famiglia per inseguire la carriera del musicista.
Una vita di assenze
Ormai donna adulta, Miriam vive di assenze e con le assenze ed è mossa da un unico scopo: scoprire la verità. Scoprire il perché del mutismo di suo padre, della morte, fatta passare per suicidio, di sua madre e degli scempi compiuti ai danni di quei luoghi e della popolazione. Quando però, dopo nove anni, rincontra Massimo, la sua vita viene messa in subbuglio da una passione intensa, quasi ancestrale, che soprattutto sa leggere nel profondo della sua anima: «Nove anni di silenzi, di assenza, neanche un rigo, una telefonata e, poi, all’improvviso, un mattino presto me lo trovai di fronte. […] Sul letto approdammo come animali nelle tane. […] I suoi occhi erano aperti quando ha frugato tra i miei capelli e tra le radici ha ritrovato il dolore di quei fili ribelli. […] Crescevo apparentemente sana […] non avevo mai lasciato trapelare le caverne che la notte mi risucchiavano, solo Massimo sapeva: strappava agli strumenti note di struggente bellezza e si tingeva i capelli di grigio e attraversava la strada al mio fianco».
Ma Miriam non può sapere che una nuova, inimmaginabile assenza sta per sconvolgerle ancora una volta la vita: Massimo muore misteriosamente.
Una morte che accomuna
La seconda protagonista si chiama Mairim – Miriam letto da destra verso sinistra: Mairim la restituita, la moribonda dal mare, quasi risorta dalle acque. Anche lei è, in qualche modo, strettamente legata a Massimo e anche lei ha alle spalle un triste passato, rimosso o dimenticato, i cui unici segni sono delle cicatrici che Mairim cerca di mascherare con il trucco. Vive nel faro abbandonato con un lupo cane nero di nome Zorba; Zorba è il suo angelo custode, la segue come un’ombra e la protegge dai suoi nemici. E Mairim di nemici ne ha molti e molto pericolosi, soprattutto da quando scrive articoli che denunciano oscure operazioni e speculazioni di dubbio interesse sottese alla costruzione di un imponente complesso edilizio su una collina disboscata da cui gli abitanti sono spinti ad andare via. Come se non bastasse, Mairim è anche una scomoda testimone oculare di fatti certamente non leciti: ha visto affondare, insieme al contenuto delle stive delle navi, chissà quale putridume.
Le strade di Miriam e Mairim si troveranno a viaggiare in parallelo indagando, appunto, sulla morte di Massimo.
Morte naturale? Omicidio? Suicidio? Morte accidentale? Overdose come si vuole fare credere? Ma Massimo non faceva uso di stupefacenti, per questo le donne, che pure non si incontrano mai davvero, sono entrambe convinte che la morte del musicista celi segreti assai più profondi.
Giallo, rosso e nero
Così il romanzo della Fasanella si tinge contemporaneamente di giallo, di rosso e di nero, come la copertina stessa del libro ci suggerisce: uno scenario in cui malavita, politica, massoneria, persino la Chiesa si scoprono intrinsecamente vicine, questioni di potere e di danari si mescolano con criminalità organizzata, corruzione, tratta di esseri umani e in cui, come noir vuole, il passato di ognuno torna a galla per svelare segreti che sconvolgono le vite dei personaggi.
In questo fitto ordito di biografie personali, storia di un’intera comunità, interessi loschi e territorio, qui inteso come ambiente naturale aggredito e violentato, è come se l’autrice volesse affermare, pagina dopo pagina e con sempre maggior convincimento, che siano le persone a fare i luoghi, ma che ugualmente e inevitabilmente i luoghi rispecchino le anime di chi li abita.
Miriam e Mairim, dunque: due rappresentazioni del femminile che anche adesso, a libro chiuso, mi domando se siano più opposte o similari. Due nomi allo specchio che rimandano all’archetipo femminile della Kore e del suo doppio che vive nell’inconscio di ognuno di noi e che non ho potuto non notare quanto intensamente rinvii, insieme alla folta schiera di personaggi il cui nome inizia con la lettera M – Maria, Margherita, Mimì, Massimo – all’autrice stessa, che di nome – un caso? – fa Marisa. Due donne che, in questo contesto animato da passioni torbide, ancestrali, ataviche e avviluppato in misteri soffocanti e ardui a dipanarsi, paiono riconoscersi a distanza l’una nella pena dell’altra. E nello specifico delle scelte stilistico-narrative relative alla due protagoniste sin da subito mi ha colpito quella di raccontare gli eventi relativi al personaggio di Miriam dal suo personale punto di vista mediante il ricorso alla prima persona singolare, laddove quelli che riguardano Mairim sono esposti, attraverso l’espediente del narratore esterno, sempre in terza persona.
Mi sono interrogata a lungo sul perché di questa scelta e, sebbene personalmente un’idea me la sia fatta, alla fine sono giunta alla conclusione che fosse meglio non pregiudicare tutte le eventuali, altre, possibili motivazioni. Ecco, questa è una di quelle domande che mi piacerebbe rivolgere direttamente all’autrice, non fosse altro perché, come lei stessa scrive, «Le scelte si portano dietro sempre una perdita»: chissà cosa, in questo caso, la Fasanella ha voluto lasciare e cosa, invece, portare con sé.
Un romanzo corale
Come intuibile da quanto detto sin qui, intorno alle due donne si stagliano un grande numero di altri personaggi – Massimo, Cecco, Rebecca, Mimì, Margherita, Maria, Irene, Filippo, Fabio, Virginia, Marietta, Natalia, don Antonio, Alina, Chiara, William… – tutti diversi tra di loro, ma al contempo tutti ugualmente portatori di un segreto orrorifico e, con esso, di porzioni di verità. Il risultato finale è un romanzo corale che dà, appunto, voce a un’intera comunità e a una storia di ricerca e di memoria collettiva. Prova di ciò è, inoltre, il fatto che la narrazione si dipani lungo quattordici giorni, ognuno raccontato più volte a seconda del personaggio che lo vive e che con il suo sguardo sulle varie vicende contribuisce ad avvicinare o allontanare, volta per volta, la verità delle cose proprio perché ogni personaggio conosce solo particelle di realtà e, quindi, di verità.
Questa frammentazione della storia, ovvero della realtà, ovvero della verità, emerge anche da un altro espediente narrativo cui la Fasanella fa ricorso: ogni personaggio, oltre ad avere un doppio in qualche altro personaggio a sé speculare, viene rappresentato da un alter ego che definirei “funzionale” e la cui corrispondenza non viene fino in fondo svelata: al lettore accettare la sfida nella sfida! Incontriamo così la renitente, la restituita, la visionaria, il viaggiatore, il guaritore, il visitatore, l’uomo di paglia, il demonio, lo scudiero… Non so quanto questo corrispondesse alle intenzioni dell’Autrice, ma queste associazioni a me hanno rievocato le caratterizzazioni dei Tarocchi, da un lato, e di alcuni mitologemi incontrati in Pinkola Estés – su tutti la Loba o la Que Sabe – quasi a dire che solo un femminile pieno, che accetta di viversi anche nella sua dimensione più primitiva, carnale, ancestrale e di vivere, in conseguenza, anche il suo negativo – in questo caso mutuo il significato di negativo dal campo della fotografia – può sconfiggere il male assoluto, il male in corpo, appunto.
Degni di nota, quale altro mistero nel mistero, il riferimento alla numerologia che fa capolino nel momento di (s)volta delle principali vicende del racconto e al mondo animale: cani, lupi, corvi, agnelli etc. accompagnano anch’essi vari snodi della narrazione.
Ne concludiamo che certamente Il male in corpo è un romanzo complesso: complesso per le tematiche che affronta, per l’intreccio che, fino alla fine, pare destinato a non sbrogliarsi, per i continui giochi di rimandi tra le diverse storie che racconta, per i misteri profondi che lo sostengono nel suo impianto generale, per la scelta di parlare non solo di vite interiori, ma anche di corpi e di carnalità, appunto.
Il male in corpo è, altresì, una storia di svelamenti, di messa a nudo di molteplici “peccati originali”, di drammi, inganni, tradimenti, passioni che, per trecento e più pagine, vengono ricostruiti, stanati, montati, smontati, smentiti e, ancora una volta, rimessi in piedi.
Il dolore, la voglia di riscatto che dia soprattutto voce a chi non ce l’ha e la sete giustizia costituiscono il file rouge del libro perché in fondo «Non c’è nulla che non sarà svelato, né di segreto che non sarà conosciuto». Peccato che le buone intenzioni spesso si scontrino con il caos imprevedibile dei sentimenti.
Una quota di non detto
«Sono stata veramente cieca quando ho portato i miei occhi dove il cuore diceva di non andare»; «I problemi della case sono i legami profondi che li abitano. L’amore tiranno abita le case: beviamo con le minestre i rancori e azzanniamo come lupi le croste di pane» fa dire ai suoi personaggi la Fasanella. Ritengo non serva aggiungere altro per esplicitare quale sia la bussola che (dis)orienta l’intenzione narrativa dell’autrice e la comprensione piena delle vicende da parte del lettore, cui alla fine rimane comunque un di più di oscuro, una quota di non detto, certamente moltissimo di irrisolto e un’atmosfera ove il confine tra bene e male assume su di sé le fattezze di un grosso punto interrogativo. Un finale che, date le premesse, conduce a una luce pallida come titola il capitolo conclusivo del volume.
Infine una nota sullo stile autorale certamente diretto, intenso, ricco di suspensce e di simboli potenti ed evocativi, talvolta nudo, duro, crudo, perfino crudele, ma che a me non ha convinto del tutto non tanto sotto il profilo lessicale, quanto alcune scelte stilistico-sintattiche che hanno finito per confondermi e, a tratti, perdere, tanto che a un certo punto ho iniziato a chiedermi se non fosse un lucido e preciso intento dell’autrice estremizzare allo scopo di trascinare pienamente e profondamente il lettore in quell’atmosfera torbida e tormentata con la quale ogni personaggio del suo racconto è costretto, prima o poi, volente o nolente, a fare i conti.
Il male in corpo risulta una lettura impegnativa, anzi, forse una sola lettura non basta per coglierlo fino in fondo; forse anche per questo suggerirei di affrontare con un taccuino per appunti alla mano e senza troppi stop and go, pena il rischio di trovarsi eccessivamente ingarbugliati in una matassa di faccende già di suo assai infittita.
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