“La festa del Santo” di Alessandro Orofino, con i personaggi di Iolanda e Aurora presenta in modo nuovo e mai banale il topos chocolatesco della madre e della figlia costantemente in bilico. Un romanzo che mostra una via possibile al restauro di quegli equilibri che determinano gli scambi primari, primordiali, delle relazioni umane
Presentare una storia è sempre un evento, perché non vi è nulla che si possa raccontare agli altri che non sia prima passato dal narratore; così, attraverso un racconto, storia ed autore diventano spesso una cosa sola: le suggestioni dell’una e le emozioni dell’altro si ricapitolano in un solo flusso che le pagine possono solo provare a raccogliere. Il resto è tutto negli occhi e nel cuore di chi vi partecipa.
Questa è l’avventura che sperimenta chi si trova a leggere La festa del Santo (241 pagine, 16 euro), scritto da Alessandro Orofino (qui è possibile leggerne un estratto) ed edito da Pathos nel dicembre del 2019, quasi come un regalo di Natale, uno di quelli che scarti nella penombra di un’atmosfera familiare, tra coloro che ami, dove fuori magari nevica ma tu ti senti riscaldato dalla tua famiglia.
Madre e figlia sul ciglio del mondo
In qualche modo, la lettura di questo testo richiama un tale desiderio: una tensione continua al tepore di quegli affetti a cui nulla può sostituirsi e che dunque, laddove non ci siano, sono chiamati ad assumere nuove forme perché delle anime non rimangano da sole a dar di conto con il margine di una sopravvivenza che vorrebbe poter diventare vita.
Orofino, deciso a calcare rischiosamente un topos letterario abbastanza battuto, e cioè quello chocolatesco della madre e della figlia costantemente in bilico sul ciglio del mondo, riesce a muoversi speditamente e con destrezza tra le pietre miliari di immagini e atmosfere che gli occhi di un lettore potrebbero riconoscere in altre storie, se lui non fosse così acutamente capace di ripresentarle in modo sempre nuovo e mai banale; dimostrando che ogni storia è sempre una storia nuova, perché nuove sono le esperienze di chi l’ha vissuta e di chi la racconta, e soprattutto di chi la legge.
Così, sin dalla prima pagina, si ha la sensazione di avere a che fare con qualcosa di assolutamente originale che però, con un ricercatissimo garbo letterario, sembra volerti dire che ciò che leggi è continuamente passibile di essere riproposto dalle storie che ci stanno accanto: un romanzo che, in questo senso, mentre ti racconta la propria storia ti mette in guardia sulla possibilità di altre esistenze possibili, perse magari nel rimasticamento del banale quotidiano e dunque mai sopravvalutate nel loro dramma sempre attuale.
Tre ere a confronto
Iolanda e Aurora, precedute dall’idea di una Lidia che è prodromo non solo a tutto il racconto ma anche al fenomeno sociale che da esso si manifesta e si denuncia, rappresentano qualcosa in più che semplici personaggi: sono soprattutto tre ere, tre generazioni a confronto, dove archetipi prossimi e salti genetici specifici non fanno altro che sottolineare come le numerose forme della vita e dell’età non possano mai, in nessun caso, contraddire la sostanza immutabile del tempo che, tuttavia, non sempre riesce a coricarsi la sera dopo aver divorato i propri figli. Talvolta, questi figli resistono, sopravvivono al tempo e lo determinano, lo superano nel superamento di se stessi. E questi figli sono figlie, una trinità generazionale che dispiega lungo gli anni gli strascichi di mille altre generazioni prima di esse, descrivendo fino a che punto l’essere umano possa diventare vittima di un ambiente millenario cristallizzato dalle abitudini e dalle vetuste tradizioni di chi non vuol cambiare e sceglie che sia il tempo a farlo.
Ma non sempre avviene così. Talvolta un ambiente non basta a renderci schiavi, come non basta una memoria scomoda, impossibile o difficilissima da poter condividere con chi amiamo. Talvolta, semplicemente, si sceglie di essere chi si vuol essere, e neanche buttandosi il passato alle spalle (perché sarebbe troppo fiabesco, e poco verosimile) ma addirittura riconquistandolo a proprio vantaggio, trasformando i limiti in risorse, mutando ciò che non si era realizzato in ciò che può e deve ancora crescere.
Il segreto geografico
Assolutamente palpabili le descrizioni degli ambienti e dei luoghi, così particolareggiate da costringerti al gioco di Orofino che non ti dirà mai in quale luogo si svolga il romanzo, e questo segreto geografico deve avere almeno due ragioni: la prima è che ti vengono fornite così tante tracce da trasformare per forza un lettore in un geolocalizzatore, e quindi va bene, perché il romanzo ti costringe a viaggiare! La seconda è che, probabilmente, e in una forma tanto implicita quanto severa, si viene costretti a dare alla narrazione gli spazi della propria città, del proprio paese, dei propri “santi”, che sono spesso le occasioni reiterate in cui un tessuto sociale può maggiormente ricostruirsi nella propria identità o perdersi in una consuetudine che può diventare una trasparenza di normalissime e devastanti violenze. Insomma, si è giocoforza costretti a immaginare certe scene come se si svolgessero nella piazza a cento metri da casa nostra, o sulla provinciale su cui passiamo tutti i giorni, o tra le vie per le quali ci muoviamo senza che magari accada nulla di particolarmente clamoroso. Ecco, appunto. Tu leggi, metti a confronto, e ti dici in un primo momento che tutto ciò succede solo là dentro, tra quelle pagine; poi, man mano che sfogli, i luoghi della narrazione cominciano così tanto a somigliare ai tuoi da farti ammettere che forse certe cose potrebbero succedere anche lì, dove abiti tu, dove il “santo” di turno può essere una festa, come nel libro, oppure qualunque altra cosa, non importa. Perché c’è sempre una festa del santo, un’occasione di condivisa idolatria del nulla, ben diversa da quella religiosità che è possibile solo se qualcuno fa di tutto per riconquistarla negli equilibri delle relazioni.
Il romanzo assolve a questa funzione: ci mostra una via possibile al restauro di quegli equilibri che determinano gli scambi primari, primordiali, delle relazioni umane. Ci mostra delle familiarità non necessariamente ereditate ma fortemente volute e conquistate, appunto, per la volontà di una scelta che desidera imporsi sugli eventi. Il “santo” diventa allora ognuno dei personaggi principali: patrono delle proprie emozioni, martire delle proprie ferite e delle altrui persecuzioni; un percorso dal patibolo all’esaltazione, all’apoteosi di una felicità che era sempre stata lì, a portata di mano, eppure non smette di essere così bella proprio perché nessuno può darla per scontata. Ecco perché l’apoteosi si mostra quasi in silenzio, con estrema discrezione, con la semplicità di quei sorrisi che, dopo aver patito le rughe di tante lacrime, adesso vogliono schiudersi e condividersi in un più sacro silenzio.
Lingua, personaggi e comparse
Le caratterizzazioni dei personaggi sono ben delineate, a metà tra ciò che ci permette di riconoscere un “tipo” letterario e ciò che invece permette che lo si incontri per la primissima volta. Un particolare merito, che non tutti gli autori possono vantare, è poi quello di aver assegnato ai personaggi di contorno una personalità talmente ben definita da renderli tutto fuorché delle comparse o delle funzioni letterarie. I comprimari, dunque, sono tali solo perché i protagonisti sono altri; ma se non ci fosse questa opportuna ed obbligatoria legge narrativa, essi sarebbero ciascuno capace di sostenere una propria storia.
Lo stile è eterogeneo, incapace di arenarsi in letti troppo stretti di parola: Orofino gioca molto tra ciò che appartiene al dire narrativo, e cioè parole care alla tradizione di chi racconta una storia, e ciò che invece, più vicino ad una comunicazione moderna, ti colpisce e ti spiazza, facendo capolino dalla pagina come a dirti che il tempo di quel racconto si è fatto il tuo tempo. Questo quasi sdoppiamento della personalità lessicale può creare qualche scompenso, soprattutto all’inizio, quando non hai ancora capito che non è accidente ma sostanza alla scelta stilistica di Orofino. Poi però comprendi che, inevitabilmente, all’interno del romanzo esiste l’orizzonte linguistico di una madre e quello di una figlia; e proprio come quando mamma e figlia litigano, i linguaggi si mescolano e la lingua si realizza per ciò che semplicemente è.
Un romanzo davvero agile nella lettura, che termina dopo aver operato un processo di giustificazione cominciato già dalla prima pagina, dove i rientri dei capoversi rimangono tanto invisibili nell’impaginazione quanto immediati nella comprensione, sostenuti dal vero pathos, che è quello a cui Orofino ti invita a prendere parte. E lo fa anche attraverso immagini di questo tipo, dove anche una descrizione non si lascia scappare l’occasione d’essere poesia: “…Poco più oltre la fontana verde in ghisa con quel perenne filo d’acqua che terminava in una pozza limacciosa guardata a vista da un’aureola di mosche e vespe. L’aria era frizzante, si sentiva che a soffiare era un qualche dio dei monti…”
Aureole, divinità dei monti a soffiare, “santi” insomma. Le cui feste richiamano ciascuno, e non solo dei personaggi letterari, a compiere un viaggio di ritorno dentro se stessi.
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Mi sono imbattuto quasi per caso in questo romanzo e sono rimasto subito colpito dalla prosa poetica e coinvolgente con cui viene raccontata la vicenda di Iolanda e Aurora. Una trama intensa che tiene incollati per ore. La storia di una madre e di una figlia, tra mille vicissitudine e una scelta che cambierà le loro vite, rimettendo tutto in discussione.